mercoledì 31 maggio 2017

Consigli di lettura per bambini!

I classici della letteratura per l'infanzia li conosciamo tutti. Nel tempo la lista si è allungata non poco e romanzi come "Peter Pan" o "Pinocchio" si trovano facilmente nelle case di chiunque. Almeno credo. 
Ci sono autori per l'infanzia che mi sono piaciuti moltissimo, come Roald Dahl o Michael Ende, altri che mi hanno deluso o che, a mio parere, sono stati parecchio fraintesi. Ad esempio, nessuno mi convincerà mai del tutto che "Il mago di Oz" sia un libro per bambini, perché io dentro ci ho visto molto altro che solo un adulto potrebbe cogliere; un altro esempio è l'autore britannico Saki, che in Italia è stato pubblicato in collane evidentemente dedicate all'infanzia, ma che anche ad una lettura superficiale risulta inadatto ad un tale pubblico. Meraviglioso per gli adulti, almeno se piacciono le short stories un po' cupe, di un'ironia tagliente e dai finali inaspettatamente spiazzanti, ma decisamente non per bambini.

Pur essendo stagionata amo ogni tanto ritornare a sfogliare quelle pagine che avrebbero dovuto appassionarmi da piccola...se solo non avessi avuto tanta fame di letteratura per adulti. Non so bene cosa mi piaccia tanto dei libri per bambini, non riesco a mettere a fuoco con precisione ciò che provo leggendoli, ma quando un libro è bello trovo tanti spunti, tante emozioni, piccoli boccioli di verità racchiusi in immagini semplici e immensamente profonde allo stesso tempo. E poi la fantasia... Nessun libro per adulti batterà mai lo sfrenato utilizzo dell'immaginazione che viene fatto dagli autori di storie per l'infanzia. Gli adulti vogliono che, anche nel fantasy, tutto torni: la magia deve funzionare in modo logico, gli avvenimenti, anche i più strani, devono essere spiegabili, riconducibili a limiti e a una funzionalità interna alla storia e al mondo che la contiene. Gli autori per bambini non si pongono tutti questi paletti, perché al loro pubblico della razionalità non frega niente e che qualcosa sia possibile o no, ragionevole o no, spiegabile o in completa contraddizione con quanto detto prima è totalmente irrilevante. E allora, be'... Si può scrivere proprio di tutto!

Tornando alla mia passione per questa branca della letteratura, oggi vorrei concentrare l'attenzione su due titoli poco conosciuti ma che mi hanno dato grande soddisfazione. Sarebbe stato troppo semplice, quasi scontato, consigliare dei romanzi che tutti conoscono, che sono universalmente riconosciuti come grandi esempi di letteratura. No, a me piace essere strana. 

Il primo romanzo che ho pensato di consigliare è "Nicobobinus", scritto da Terry Jones. Un po' datato e quasi impossibile da recuperare in Italia, è la storia di un bambino dal nome davvero strano, Nicobobinus appunto, che insieme alla sua amica Rosie parte per un viaggio fantastico durante il quale visita posti incredibili, conosce personaggi pazzeschi e vive mille avventure. Partendo dalle strette calli di Venezia, Nicobobinus si ritrova ad affrontare nemici temibili e spietati e a combattere contro il tempo per sopravvivere.
Lessi questo libro da piccolina, avrò avuto 8 anni, uno dei pochissimi che presi in prestito dalla biblioteca (da allora la mia ossessione per il possesso dei libri si è drammaticamente inasprita...) e mi piacque tantissimo. Con gli anni, in qualche modo, il ricordo del disegno di copertina, di quel ragazzino dal nome strano e lunghissimo che cade dal cielo è rimasto nel mio cuore; arrivata all'età della ragione non ho potuto far altro che accaparrarmene una copia via internet. Ho scelto di comprarlo in inglese e appena mi è arrivato l'ho riletto tutto d'un fiato. Che dire, mi ha conquistata come la prima volta. E forse anche di più.
Sì, perchè "Nicobobinus" è una storia un po' scomoda, in cui i cattivi sono davvero cattivi e alcuni di questi cattivi sono persone socialmente insospettabili... Ad esempio dei religiosissimi monaci. Terry Jones, famoso (almeno per gli estimatori del genere) per essere uno dei componenti dei Monty Python, fa in questo romanzo scelte di rottura, inequivocabilmente forti. Non risparmia critiche a nessuno e, con gli occhi di un'adulta, vedo una satira intelligente e aspra che filtra tra le pagine del libro. Chissà, forse pur non ricordando granché, era anche questo ad avermi colpita tanti anni fa...
Insomma, un libricino davvero interessante e godibile sia da piccini che da grandi!

Il secondo libro che vorrei citare è "Un anno col fantasma" di Ann Phillips. Questa storia di fantasmi ambientata in Inghilterra negli ultimi anni della Belle Epoque è davvero davvero inquietante senza essere splatter nè horror. Niente persone sgozzate, niente demoni che ti rubano l'anima; soltanto una ragazzina, Florence, che sentendosi sola, annoiata e desiderosa di un amico decide di fare un rito di evocazione e richiama Georges, un bambino fantasma. Tutto bene finché Georges non inizia a richiedere tutta la sua attenzione e a perseguitarla perché giochi con lui giorno e notte...
Ciò che mi ha colpito di questa storia è stata prima di tutto la descrizione dell'evocazione e del rito di esorcismo, più avanti. Ann Phillips non fa semplicemente accadere le cose, ma utilizza gestualità e simboli presi in prestito dalla magia, o stregoneria, tradizionalmente giunta fino a noi. Un tocco di praticità che mi ha positivamente sorpreso.
Inoltre la narrazione del rapporto malato tra Florence e Georges è semplice ma coinvolgente. Dal puro divertimento si passa al fastidio, all'esasperazione e infine alla vera e propria paura. Georges, il fantasma, è tratteggiato in maniera splendida. Il suo carattere aggressivo, egoista e malevolo traspare al lettore adulto fin dalle prime battute scambiate con Florence. La sua reticenza nel non voler condividere con la ragazzina il suo passato, le sue origini misteriose dovrebbero mettere in guardia la bambina, ma lei mostra un'ingenuità quasi disarmante nel non comprendere, o nel rifiutarsi di capire, quanto quel gioco stia diventando pericoloso. Ovviamente dovrà farlo a sue spese.
Verso la fine la storia prende una piega più drammatica e altre persone care a Florence verranno danneggiate dalla presenza del fantasma Georges. Sul finale la Phillips inserisce un altro dettaglio non scontato: i fantasmi sono spiriti e come tali possono cambiare sembianze a proprio piacimento. Georges sarà quindi davvero un bambino? E com'è morto? Cosa vuole davvero da Florence e dagli abitanti di villa Paragon?
Una storia emozionante da leggere tutta d'un fiato, con un crescendo di tensione che sicuramente funziona sui giovani lettori, visto che ha funzionato anche su di me da grande. Se piace il genere assolutamente consigliatissimo!

venerdì 26 maggio 2017

53. Francisco Pérez Gandul - Cella 211

Più riguardo a Cella 211Ogni tanto ci provo. Capita a tutti di essere stanchi e incasinati e di aver soltanto voglia di staccare il cervello e di godersi una bella storia avvincente, magari non di grande profondità ma con un buon ritmo e uno stile godibile. Dicevo, ogni tanto ci provo: guardo sullo scaffale, mi lascio sedurre da un libro all'apparenza facile ma interessante, decido di leggerlo. E inevitabilmente, nel 90% dei casi, rimango delusa.
Questo è il caso di "Cella 211", romanzo d'esordio dello scrittore spagnolo Francisco Pérez Gandul uscito nel 2004 e da cui è stato tratto un fortunatissimo film, vincitore di numerosi premi Goya (una sorta di Oscar del cinema spagnolo). Io il film l'ho pure visto, per disperazione oserei dire, e devo ringraziare la Rai perché mette alcuni film vincitori di premi e rassegne a disposizione degli spettatori in streaming, tra cui anche "Cella 211", che trovate qui. Io di cinema capisco poco e tutta quest'arte non l'ho vista, ma sicuramente il film è meglio del libro: semplicemente, nella stesura della sceneggiatura hanno cambiato la gran parte delle cose insensate, dando un minimo di realismo ai personaggi, agli eventi e al finale.

Ma andiamo per ordine.
"Cella 211" è la storia di Juan, un giovane appena assunto come secondino in una prigione di Valencia. E' la sua prima esperienza in divisa e dietro le sbarre, ma ha bisogno di questo lavoro, perché da poco si sta costruendo una famiglia e a casa lo aspetta l'amatissima moglie Elena, incinta di tre mesi (ok, questo lo veniamo a scoprire più avanti...). E' così ansioso di fare bella figura che decide di presentarsi al lavoro con un giorno di anticipo, così da conoscere i colleghi, farsi spiegare le procedure e le problematiche della prigione e familiarizzare con l'edificio stesso. La sfortuna però è sempre in agguato: il buon Juan, che da sempre soffre di crisi d'ansia quando si trova in una situazione nuova e stressante, in cui deve fare buona impressione, si sente male durante il giro delle celle e sviene. I colleghi, approfittando dell'assenza dei detenuti durante l'ora d'aria e di una cella rimasta libera lì accanto, lo stendono un attimo sulla branda, aspettando che riprenda i sensi. Poi tutto avviene in pochi secondi: scatta l'allarme, si sentono le urla dei detenuti in rivolta che si avvicinano velocemente e i secondini sono costretti ad abbandonare Juan per rifugiarsi nella zona di sicurezza. Fanno appena in tempo a chiudersi dentro che i detenuti del raggio 5, i più pericolosi della prigione, arrivano capitanati da Malamadre, un uomo che ha fatto dentro e fuori dal carcere da quando aveva 18 anni e ha ucciso l'amante di sua madre. I prigionieri trovano Juan nella cella 211 e lui, comprendendo la situazione, tenta l'impossibile: cerca di farsi passare per uno di loro.

La trama non è esattamente da premio Nobel per la letteratura, ma mi pareva un'opzione accettabile per il libro facile e d'azione che stavo cercando. Peccato che da qui in avanti la storia inizi a degenerare inesorabilmente. Non starò a elencare ogni singolo dettaglio che mi ha fatto imbestialire, ma un paio vanno citati, ad esempio, quindi mi scuso per gli spoiler.
Intanto il caro Juan viene scovato dai detenuti mentre è su una branda, in una cella, ancora mezzo intontito dallo svenimento, durante il quale ha anche sbattuto la testa. L'uomo che lo apostrofa chiedendogli cosa ci faccia lì è uno dei fedelissimi di Malamadre, ma lui non ne sa nulla, quindi potrebbe pensare di trovarsi di fronte a chiunque. Juan si finge un detenuto, ma l'altro è perplesso: se ci fosse stato un nuovo arrivo l'avrebbero saputo e poi c'è qualcosa che non va nella sua divisa. Decide quindi di chiamare il capo. Ebbene, quanto può averci messo? Uno, due minuti? Malamadre era lì, in corridoio, mica dall'altra parte della prigione. Tuttavia in quel lasso di tempo Juan (che un minuto prima non era in grado di alzarsi e correre per mettersi al riparo) riesce a: alzarsi, capire che rischia di morire e deve camuffarsi da detenuto, togliersi la cintura, sfilare i lacci delle scarpe, infilare i lacci nei buchi della cintura, nascondere il tutto in un buco che trova per caso dietro al water, svuotarsi le tasche, buttare soldi, fede nuziale e documenti nel water e tirare l'acqua, infilarci anche il portafoglio intero e incastrarlo in fondo, che non venga trovato, asciugarsi le mani e tornare a sedersi sulla branda. Ma che, veramente? E non è finita! C'è un ultimo dettaglio di cui Juan non era a conoscenza ma che verrà messo alla prova. Siccome la sua tenuta (non indossa la divisa ma normali vestiti scelti a casa che, casualmente, sono dello stesso colore e assomigliano straordinariamente alla divisa dei carcerati di quel particolare raggio) è leggermente diversa dal solito Malamadre sente odore di bruciato e gli chiede di abbassarsi i calzoni. Tutti i detenuti ricevono all'ingresso un paio di mutande identiche, ben riconoscibili. Come farà Juan a cavarsela? Be', ma è naturale... Perché qui scopriamo che Juan non porta le mutande! Ah, che gioia... Da qui in avanti sarà soprannominato il Mutanda e devo dire che forse è l'unica cosa godibile dell libro.
L'altro fatto che mi ha fatto perdere la pazienza nel corso della lettura è il cambiamento folle che avviene in Juan all'interno della prigione. Secondo me questo era anche un tema interessante, su cui sono stati fatti in passato svariati esperimenti psicologici e sociali con risultati anche allarmanti. Nel mio cuore speravo un po' che fosse proprio questo il tema portante, il materiale di ricerca che faceva da spina dorsale al libro. Evidentemente mi sbagliavo. Non si capisce come Juan passi dall'essere una persona normale, educata e civile, persino un po' ansiosa e bisognosa di conferme, a diventare il braccio destro (e poi l'avversario) di Malamadre, un uomo forte e sicuro di sé, che disprezza il sistema carcerario e il governo e non si fa scrupoli a sgozzare un collega, per quanto si tratti di una persona abietta che gli ha appena distrutto la vita. Cioè, è lo stesso che all'inizio è svenuto perché era il primo giorno di lavoro? E invece in mezzo ai detenuti se ne sta bello e beato, tutti si fidano di lui, impara subito nomi, modus operandi e linguaggio del carcere come se ci fosse sempre vissuto. Va bene la trasformazione, ma qui è un po' troppo e un po' troppo subitanea, senza una reale introspezione o un'escalation a giustificarla.
Potrei andare avanti per ore: i superdetenuti cattivissimi che si sconvolgono quando un uomo ne sgozza un altro (nemmeno a sangue freddo, dopotutto...), terroristi che si spaventano per la rivolta e hanno attacchi di cuore, poliziotti che si fanno sfuggire tra le mani giovani donne sole e disperate e tante altre delizie. Tutto però concorre a formare un puzzle inequivocabile: questo libro non ha un senso nemmeno a cercare di darglielo. Io ce l'ho messa tutta, credetemi. Sono anche stata derisa, qui a casa, perché ho continuato a leggere dopo la scena delle mutande (che è tipo pagina 10)...

A tutto ciò si aggiunge una tecnica narrativa sfibrante e traballante. L'autore usa tre diversi punti di vista: quello di Juan, quello di una delle guardie e quello di Malamadre. Non solo, i tre narrano anche in momenti diversi: Juan narra l'azione nel corso del suo svolgimento, mentre Malamadre e la guardia raccontano ciò che è successo al passato, perché il tutto si è già concluso e loro stanno soltanto riferendo i loro ricordi. Già così era un bel minestrone, visto che i salti da un personaggio all'altro sono continui e sfiancanti. In più lo scrittore ci mette la ricerca di uno stile che si adatti ai tre narratori, per cui fa parlare Juan in un modo, Malamadre in un altro completamente diverso e la guardia in un altro modo ancora. A libro finito posso dire che l'unico narratore sensato è il secondino. Degli altri due non so chi mi ha fatto più venire l'esaurimento, ma qualcosa in comune hanno: per tre quarti del libro non fanno altro che parlare, ricordare e pensare a scopare, donne varie in atteggiamenti più o meno sessuali e mostrare di essere veri macho con le palle. Non so se il povero Francisco Pérez Gandul soffrisse dei primi sintomi della crisi di mezz'età durante la stesura del romanzo, ma la narrazione calca la mano talmente tanto su questo punto che a tratti suona persino ridicola. A discolpa degli spagnoli, che non credo si riconoscano in questi sproloqui machisti, posso dire che le nuove generazioni con cui sono entrata in contatto negli anni hanno dato prova plurime volte di essere l'esatto contrario del maschio latino descritto in questo romanzo. Mi rimane l'amarezza di non aver avuto l'ebook ma il cartaceo, perché avrei potuto facilmente calcolare quante volte viene ripetuta la parola "palle" all'interno del libro.

Lo dico chiaro, in caso non si fosse ancora capito: di questo romanzo non si salva niente. Lo sconsiglio di cuore, perché penso ci siano modi migliori di buttar via i propri soldi e, più prezioso, il proprio tempo. Se vi incuriosisce guardatevi il film, che ha un finale totalmente diverso ma almeno è più credibile, e dimenticate che questo romanzo sia mai stato scritto.

sabato 20 maggio 2017

52. Jamaica Kincaid - In fondo al fiume

Più riguardo a In fondo al fiumeDove si trova l'isola di Antigua?
Niente panico, nemmeno io lo sapevo e a dire la verità anche adesso avrei qualche problema a localizzarla precisamente... Antigua, che con l'isola di Barbuda e un paio di isolette più piccole forma uno stato indipendente, è un'ex colonia britannica ed è anche il Paese natale della scrittrice della raccolta di racconti "In fondo al fiume" Jamaica Kincaid.
In verità questo non è il suo vero nome, ma lo pseudonimo scelto dall'autrice, che dopo aver trascorso la propria infanzia sull'isola di Antigua si è trasferita negli Stati Uniti e lì ha cominciato a scrivere per pura passione. Oggi è una scrittrice affermata, professoressa universitaria specializzata in letteratura dei Caraibi, ma le origini di Jamaica Kincaid vanno ricercate in ambienti molto più poveri e semplici, nella popolazione di colore discendente dagli schiavi deportati in America. Sono umili le origini dell'autrice che, nata nel 1949, a 16 anni fu costretta a lasciare la terra natale per andare a fare la ragazza alla pari in una famiglia di bianchi americani. La giovane dovette abbandonare gli studi, la casa e i propri famigliari e reinventarsi una vita, così lontana dal suo mondo.

Una delle cose che ho pensato è che non dev'essere stato facile, al di là delle aspirazioni di vita e degli affetti abbandonati, ritrovarsi a New York dopo aver vissuto per 16 anni su un'isoletta con poche migliaia di abitanti, circondata dall'Atlantico, in pieno clima equatoriale. Mi immagino la giovane Jamaica shockata, spaesata, e devo dire che la sua scrittura ha uno stile così particolare da restituirci un po' di quella sensazione. Io, almeno, addentrandomi tra le pagine del suo libro, ho avvertito un senso di vertigine.
La scrittura di Jamaica Kincaid è semplice e complessa allo stesso tempo: nonostante un lessico e una struttura sintattica chiara e lineare, quasi elementare, le frasi si legano tra loro in un continuo gioco di ripetizioni e rimandi, creando un effetto che oscilla tra la poesia e la prosa. E' uno stile surreale, onirico, in cui anche le descrizioni più realistiche si collegano a ricordi, sogni, visioni e leggende caraibiche in una trama inestricabile e difficile, a volte, da decodificare.
Siccome è difficile da descrivere e capisco che potrei non aver reso l'idea, ve ne regalo un pezzetto:

Nella notte, nel cuore della notte, quando la notte non è divisa in piccolo sorsi come una bevanda zuccherata, quando non c’è un subito prima di mezzanotte, mezzanotte, o un subito dopo mezzanotte, quando la notte è rotonda in certi punti, piatta in certi punti, e in certi punti come un buco profondo, blu intorno e nero dentro, arrivano gli uomini che svuotano le latrine.
Vanno e vengono, camminando sul terreno umido con le scarpe di paglia. I loro piedi nelle scarpe di paglia fanno un rumore secco. Non dicono niente.

Gli uomini che svuotano le latrine vedono un uccello che cammina fra gli alberi. Non è un uccello. È una donna che si è appena tolta la pelle e va a bere il sangue dei suoi nemici segreti. È una donna che ha lasciato la sua pelle in un angolo di una casa di legno. È una donna assennata che ammira le api sullibisco. È una donna che, per scherzo, raglia come un asino quando ha sete.

Non è quello che definirei un libro leggero, facile. Sono soltanto 80 pagine, ma non sarei stata in grado di leggerle e apprezzarle tutte d'un fiato. No, l'ho centellinato, e alla fine credo di aver fatto la scelta giusta.

Come dicevo "In fondo al fiume" è una raccolta di racconti brevi, la prima pubblicazione di Jamaica Kincaid. Sicuramente quindi potrebbe essere considerata un po' immatura per certi versi; potrei esprimere un parere più informato se avessi letto altre opere dell'autrice, ma purtroppo non ne sono in possesso...
Le tematiche sono molto intime, autobiografiche, e ripercorrono un po' le emozioni e i ricordi della scrittrice dall'infanzia all'età adulta (per quanto giovanissima). Gli esperti, che sono tanto più bravi di me e vedono cose a me oscure, hanno trovato tanti argomenti di discussione in queste pagine che io non sono stata in grado di scovare; tuttavia uno dei temi portanti è sicuramente il rapporto madre-figlia.
Jamaica Kincaid visse una relazione molto altalenante e difficile con la madre: dopo una prima infanzia ricca di affetto e attenzioni, la morte del papà e l'arrivo di un secondo uomo nella vita della madre, da cui avrà due figli maschi, sgretola l'intimità familiare e toglie alla bambina i punti di riferimento avuti fino ad allora. Scoppiano quindi gelosie, risentimenti, litigi e ripicche, mentre la ragazza ricerca quel posto speciale tra le braccia della mamma che non c'è più. Il picco viene raggiunto proprio quando l'autrice ha 16 anni, poiché sarà la madre a decidere, in barba alla sua notevole carriera scolastica e alle sue ambizioni, di ritirarla da scuola e di spedirla a lavorare in una grande città sconosciuta a migliaia di chilometri di distanza, tutto perché la ragazza mandasse a casa soldi per aiutare la famiglia in difficoltà. La reazione, comprensibilissima, di Jamaica Kincaid è il rifiuto: non solo non manderà a casa nemmeno un dollaro ma non farà ritorno nella terra natale per circa 20 anni, tagliando completamente i ponti con i famigliari.
La figura della bambina e della giovane adulta in relazione con la madre torna regolarmente nelle storie che compongono questa raccolta, illustrando proprio questo percorso di affetti accidentato, la terribile dicotomia tra l'amore e la dolcezza suscitato dai ricordi e la sensazione di rivalità e abbandono che aleggia sul presente. E' una bellissima descrizione dell'universale rapporto di tensione tra madre e figlia, di un essere umano che si rispecchia in chi l'ha messa al mondo e vorrebbe non separarsene mai, pur ricercando la propria indipendenza, una personalità definita anche per opposizione. Il racconto a mio avviso più rappresentativo di questa tematica, e per gusto personale uno dei più belli della raccolta, è "Mia madre".

Non appena augurai la morte a mia madre e vidi il dolore che le procurava, fui dispiaciuta e piansi così tante lacrime che la terra tutto intorno a me ne fu intrisa.

Così inizia, dalla spaccatura tra le due donne, frutto delle parole avventate di una fanciulla che si mostra più sfrontata e aggressiva di quanto sia davvero. Da questo scontro prende il via il lento e tumultuoso corso del loro amore-odio, in un continuo cercarsi e respingersi. E' un desiderio di restare unite impossibile, ma la paura dell'astio che si è venuto a creare tra le due le spinge a fingere, a nascondersi al sicuro di una fredda distanza di sicurezza.

Fra me e mia madre c'erano adesso le lacrime che avevo pianto, e raccolsi delle pietre per costruire un argine in modo che quelle formassero un piccolo stagno. L'acqua dello stagno era densa e nera e velenosa, sicché potevano viverci solo turpi invertebrati, Io e mia madre ci guardavamo ora con cautela, sempre ben attente a ricoprire l'altra di gesti e parole d'amore e d'affetto.

Più la ragazza cresce e diventa donna più la tensione cresce. E poi il distacco, la separazione così netta, improvvisa e incompresa. La fanciulla si addentra nel mondo, scopre una nuova se stessa nel Paese straniero. Eppure da un grande dolore, quello dell'esilio forzato, nasce la rivelazione: a distanza, lentamente, diventando indipendente la giovane esce dal gioco delle parti e trova un proprio posto; di più, si ricongiunge alla madre che ha perso, ritrovandola in sé.

Che dire in conclusione? Questa autrice mi ha stupito, sconvolto i sensi e turbato qualche sonno con viaggi onirici tormentati tra la luce e l'ombra dei Tropici. Non posso che concordare con chi ha descritto la sua prosa come una poesia senza metrica né rima. Consiglio a tutti di dedicarle un po' di tempo, giusto il necessario per farsi trascinare in uno dei suoi vortici di simboli ed emozioni.


lunedì 15 maggio 2017

51. Gustave Flaubert - Madame Bovary

Ci sono libri di cui si sente dire peste e corna per tanto tempo da convincerci della loro intollerabilità. Per me uno di questi è stato "Madame Bovary" di Gustave Flaubert.
Per molto tempo ho desiderato leggerlo, ma, un po' intimorita dall'aura classica negativa che lo circondava, me ne sono tenuta a debita distanza, occhieggiandolo soltanto con amarezza. Poi, quest'anno, ho avuto l'occasione di leggerlo con un'altra persona e questo mi ha dato il coraggio per affrontare l'avventura.
Qual stupore! Perché nessuno mi ha mai detto che questo libro era tanto bello? Perché ne ho sentito parlare solo male in tutti questi anni? Irragionevole, incredibile. Per me è stato un viaggio meraviglioso nell'animo umano, nell'animo tormentato ed estremamente realistico di una giovane donna.

La signora Bovary che dà il titolo all'opera è Emma, nata Rouault, che Flaubert ci fa conoscere da giovane donna, per poi trascinarci nella narrazione della sua infanzia, come a spiegare il carattere spigoloso ed eccessivamente drammatico che l'ha resa famosa e invisa a tanti lettori.
Qui io devo subito spezzare una lancia in favore di Emma: è vero, è una donna problematica, piena di difetti e per questo molto vera, realistica, ma non stiamo parlando di una donna né malevola né crudele. La fama di donnaccia spudorata e di facili costumi, di donna incapace di amare è totalmente immotivata. Ho la sensazione, in questo caso come in molti altri, che sia stato il giudizio femminile a pesare contro Emma. Già, perché non c'è nessuno di inclemente verso le donne fragili quanto le altre donne. Agli uomini viene perdonato quasi tutto, in fondo sono maschi, appunto, e la mentalità femminile distorta li dipinge come esseri deboli, infidi e inclini al tradimento per natura, incapaci di vera rettitudine morale; invece negli esponenti del sesso debole tali difetti sono inaccettabili, intollerabili, e meritano di essere giudicati e condannati con forza. Anche in questo si esprime la misoginia della nostra società, nell'accanimento sulle donne e sui loro errori. Una vera donna è perfetta e incorruttibile, sempre.
Ebbene, Emma NON è perfetta e ne pagherà il prezzo sulla propria pelle. Tuttavia a me ha fatto una tenerezza infinita, l'ho trovata di una fragilità e di una sofferenza interiore desolanti. Non sono capace di condannare una donna per i propri errori quando già la vita gliene fa carico; al contrario, ad Emma vengono anche addossate tante colpe che non ha.

La prima cosa che mi ha stupito è leggere della sua infanzia e della deprivazione emotiva in cui è cresciuta. Se si fa un po' di attenzione ci si accorge subito che la piccola Emma non ha affetti veri e profondi: affidata al collegio non pare soffrire della lontananza da casa, tanto da non riuscire a provare genuina tristezza nemmeno quando sua madre muore; tuttavia non sembra creare veri legami i amicizia nemmeno con le coetanee, visto che in tutto il libro Emma non risulta avere nemmeno un'amica. Cresce senza fare esperienza di sentimenti veri, non sa cosa sia l'amore in qualsiasi sua forma, e allora cosa fa, dato che gli umani hanno bisogno in modo disperato di contatto e connessione emotiva? Li cerca all'esterno, in esperienze e atteggiamenti che le fanno smuovere qualcosa dentro. Così si abbandona al misticismo religioso, stile santa Teresa, completo di digiuni e mortificazioni; poi crescendo si rivolge alla letteratura, in particolare ai romanzi d'appendice.

Anche qui bisogna aprire un calderone ribollente di critiche. Si è detto spesso che Emma sia stata rovinata dalla lettura, che i libri di cui si cibava insaziabilmente l'abbiano corrotta, mettendole in testa fantasie insensate e spregiudicate. Personalmente non sono d'accordo. E' certo che i romanzi d'appendice, probabilmente, non hanno fatto del bene alla mente facilmente sovreccitabile e plasmabile della giovane Emma, ma è pur vero che ciò è accaduto solo per una predisposizione naturale della ragazza. E' plausibile supporre che sarebbe successo lo stesso se fosse stata semianalfabeta... Non condivido l'idea che esista una buona e una cattiva letteratura, libri pericolosi e libri adatti alle fanciulle. Esistono invece persone dal carattere debole e con problematiche personali irrisolte in cui la lettura, soprattutto di un certo genere, non va a portare giovamento.
Come dicevo, nel caso di Emma il problema è la sua inesperienza di sentimenti profondi, di un attaccamento sano e sincero. Per questo, sentendo di dover provare o almeno andare alla ricerca di tali emozioni, la ragazzina inizia a farsi fantasie basate su storie irreali e finisce per crearsi aspettative assolutamente impossibili. Sogna grandi avventure, passioni indomite, uomini forti e senza macchia che tutto sanno e tutto sono in grado di fare, belli, sempre sorprendenti e, naturalmente, pieni di soldi. Capirai che novità... Mi pare che anche al giorno d'oggi i sogni siano gli stessi, sia che le ragazze leggano sia che si rifiutino categoricamente di farlo.
Emma non è a contatto con il reale, con la propria condizione sociale ed economica. Non lo è da ragazza, quando ambisce alla ricchezza e ad un matrimonio aristocratico, e continua a non esserlo alla fine della sua vita, quando si rivela incapace di gestire la casa e l'aspetto finanziario della sua vita. D'altronde anche in questo parte della colpa è da ricercare nella famiglia, che le impartisce un'educazione signorile pur sapendo che nel contesto sociale in cui si trova non potrà mai entrare davvero in contatto col mondo a cui vorrebbe appartenere.

Non c'è da meravigliarsi, quindi, se Emma, tornata a vivere sola col padre in campagna, accetta di sposare Charles Bovary. L'uomo è mediocre, sicuramente inferiore a lei per ambizione e incline a lasciarsi manipolare dalle donne della propria famiglia, ma almeno è un medico, quindi può vantare uno status sociale rispettabile. Insomma, è il meglio che poteva sperare di trovare. Inizia così la loro vita insieme.


Charles ed Emma sono entrambi molto introversi, chiusi nelle loro fantasie e portati alla solitudine. Lui immagina di vivere un'intensa storia d'amore con lei e di amarla appassionatamente, ma se guardiamo bene ci accorgiamo che è assolutamente incapace di prestare attenzione ai dettagli e di leggere gli stati d'animo della moglie. Emma, d'altro canto, è alla continua ricerca di una fuga dalla realtà, perché non è in grado di affrontare la delusione dei propri impossibili desideri. E' un difetto, questo, che la porterà alla rovina e a compiere, alla fine, un gesto folle e disperato di autodistruzione.
Emma sogna, immagina, ricorda, e ogni volta che le sembra di sfiorare ciò che crede di volere aumenta in lei il senso di desiderio, di rimpianto, e lentamente annega nell'insofferenza.

Una delle cose che più mi hanno colpito è l'abilità di Flaubert, un uomo, di indagare l'animo femminile nei dettagli, con una delicatezza incredibile, e ancora maggiormente la sua conoscenza intima dei dolori dell'animo, della sofferenza intima. La descrizione del lento decadimento di Emma, pagina dopo pagina, è una descrizione quasi clinica della depressione. Tre quarti dei comportamenti comunemente contestati alla protagonista, quali l'essere sempre annoiata, capricciosa e umorale, sono i classici sintomi rilevati in questi casi, quindi potremmo dire che la donna avrebbe avuto bisogno di aiuto, più che di correzione...
Flaubert si rivela più e più volte sensibile e vicino alle problematiche femminili, alle difficoltà che esse dovevano affrontare in società e alle limitazioni che erano loro imposte. Quando Emma e Charles hanno una bambina, Berthe, lei si rattrista, pensando che anche sua figlia non sarà libera; invece, si dice, un maschio avrebbe potuto fare ciò che voleva, avrebbe potuto crearsi il proprio futuro ed essere felice.
Addirittura ci sono momenti in cui Flaubert ci fa sospettare di disprezzare un po' il genere maschile, ad esempio quando scrive brevi commenti come questo:

"Infatti, per tre anni, egli l'aveva evitata accuratamente, per quella vigliaccheria istintiva che caratterizza il sesso forte."

Se lo dice lui... Almeno mi evita il dolore di essere la solita fustigatrice di uomini! Perché diciamocelo, in questo libro non c'è una figura maschile che si salvi. Chi più chi meno, passano tutti per approfittatori, deboli o inetti.
Il suo primo amore, Léon, si rivela immaturo, incapace di esporsi. L'altro uomo della sua vita, Rodolphe, è un triste esempio dei peggiori donnaioli, incapace d'amore, interessato soltanto all'ebbrezza dei sensi, alla conquista. La usa e la distrugge, seducendola con un'insistenza che sfiora la violenza...
Ancora una volta io ho letto nelle azioni di Emma la volontà di non perdersi, di non fare del male. Resiste, fa di tutto per non cadere in errore, come se sapesse che, fatto quel passo in più, sarebbe rovinata per sempre. Saranno proprio questi uomini a distruggerla pezzo per pezzo, ad approfittare della sua ingenuità e della sua fervida immaginazione, perché essa fa di Emma un'amante focosa e spregiudicata, capace di far sentire un uomo come un dio. Questi uomini hanno visto la rovinosa fine a cui lei sarebbe andata incontro, ma nessuno ha avuto la volontà di fermarla, di aiutarla, di prendersi cura di lei.
E Charles, il marito? Lui fa quasi pena, poverino, così incapace di vedere ciò che gli accade sotto il naso... Perfetto campione dell'Utilitarismo, non vede perché Emma non dovrebbe essere felice: in fondo ha una bella casa, lui ha un lavoro rispettabile, ha cibo, vestiti e servitù e le viene anche soddisfatto qualche vizietto. In questa società in cui la felicità è solo materiale la sofferenza di Emma è incomprensibile.

Non credo ci sia qualcuno che non sa come finisce questo romanzo. Non c'erano molte alternative, date le premesse. Sommersa dalle menzogne su cui posa la sua vita, un'esistenza assolutamente finta, una volta che i nodi vengono al pettine o hai il carattere di esporti, affrontare il giudizio pubblico e reinventarti una vita o soccombi. Ecco, forse è questo il difetto più grande di Emma, a conti fatti: la sua mancanza di vero carattere, di senso di responsabilità, quella forza che permette a molti di noi di far fronte a testa alta alla vita e ai suoi alti e bassi.
Io sapevo che Emma sarebbe morta, ma mi ha colpito molto la durata dell'agonia e la descrizione dettagliata della sua morte. Pare quasi che Flaubert abbia proprio voluto farcela sentire sottopelle, questa sofferenza dilaniante, e non ci risparmia nessun dettaglio. Fino alla fine staremo accanto ad Emma e la osserveremo patire le pene dell'inferno. Io, a metà circa dell'agonia, ho fatto una pausa, perché la sensazione era davvero opprimente.
E' quasi grottesco come Charles sembri svegliarsi dal suo sogno di vita dorato solo alla morte della moglie per farsi trascinare dal ricordo di lei, quasi come una maledizione rimasta a tormentarlo, in un mondo di emozioni forti e strazianti. Allora la amava davvero profondamente, viene da esclamare guardandolo soffrire la vedovanza. O forse no, perché in fondo a Charles è sempre piaciuta di più l'immagine di Emma che lui si era creato in testa...

In conclusione, questo romanzo mi si è rivelato veramente come un grande capolavoro, con la profondità e l'intensità degna del suo nome e della fama che lo precede. Pur non amando Emma Bovary o alcuno degli altri personaggi, ho vissuto con loro il drammatico dipanarsi delle vicende, nell'attesa della fine che si è rivelata più crudele di quanto avessi immaginato. Consigliarne la lettura mi sembra sciocco, perché il libro è talmente famoso da non necessitare supporto; consiglio invece ai lettori che si accingono alla lettura di approcciarlo a mente aperta, senza pregiudizi, ma con l'animo pronto ad accogliere e compatire le mancanze e i difetti degli esseri umani che, si sa, perfetti non sono mai, se non nei romanzi d'appendice...

venerdì 5 maggio 2017

50. Donatella Di Pietrantonio - L'Arminuta

Più riguardo a L'ArminutaHo comprato questo romanzo in un attacco di shopping compulsivo bibliofilo, qualche tempo fa. Una settimana dopo non vedevo altro che post online di recensioni entusiaste. Stupidamente mi ha un po' dato fastidio: sono egocentrica, avrei voluto scoprirlo da me quanto era bello questo libro. Inoltre, per una mia misantropia congenita, il fatto che fosse piaciuto a tante persone me l'ha subito posto sotto un'ombra di sospetto: possibile che tante persone apprezzino qualcosa di realmente bello? Non sarà un romanzetto facile nazionalpopolare?
Invece no, mi sbagliavo ad essere prevenuta. "L'Arminuta" di Donatella Di Pietrantonio è davvero bello.

1975, Abruzzo. La protagonista, che peculiarmente non avrà mai altro nome all'interno del romanzo se non il soprannome che dà al libro il titolo, l'Arminuta (cioè "colei che è ritornata"), ha 13 anni e vive tranquillamente in città con i suoi genitori, quando la madre si ammala. Solo allora scopre che quelli che chiama mamma e papà dalla più tenera infanzia non sono i suoi veri genitori, ma soltanto dei cugini alla lontana. Lo scopre perché hanno deciso di riconsegnarla alla sua vera famiglia, che vive in un paesino a qualche chilometro di distanza.
Per lei è uno shock terribile: di colpo non ha più punti di riferimento, perde amici, abitudini, tutto ciò che ha amato e che ha costituito la sua identità; si ritrova sbattuta in una casa che non conosce, dove si parla un dialetto stretto e aspro che fatica a capire, e dove regna la miseria più nera. Non solo ha due genitori, ma anche 4 fratelli e una sorella nuovi di zecca.

Così comincia l'avventura dell'Arminuta, una storia drammatica, di dolore e riscatto, di ricerca della verità e di se stessi in un mondo di adulti che sembra giocare con le vite dei giovani quasi fossero oggetti inanimati, senza volontà.

Il tema fondante del romanzo è senza dubbio la famiglia in senso più ampio e declinata in tutte le sue problematiche.
Cos'è davvero una madre? Cosa ci rende davvero famiglia? Conta davvero tanto il sangue o è più importante l'amore che si riceve? Sono domande piuttosto attuali, di cui tanto si è discusso negli ultimi anni e che restano ancora oggi lì sospese nell'aria, a dividere in due la popolazione italiana.
Ciò che Donatella Di Pietrantonio ha da dire è chiaro: di certo non basta mettere al mondo una creatura per esserne madre/padre; la genitorialità è un lavoro continuo e senza fine, è dedicare parte della propria vita a crescere un altro essere umano con tutte le risorse in nostro possesso. L'Arminuta, di madre, non ne ha in fondo nemmeno una: quella biologica ha accettato di darla in affido ad una parente lontana a soli pochi mesi di vita, mentre l'altra se ne è sbarazzata quando le cose in famiglia hanno cominciato a non andare più molto bene. Il vuoto lasciato da queste figure, soprattutto dalla seconda, Adalgisa, è mostruoso, e brucia dentro in un misto di rabbia e sconforto che va ad intaccare per sempre le fondamenta e l'autostima della ragazza.
Un'altra delle verità forti di questo romanzo è che anche l'essere fratelli e sorelle non dipende soltanto dal sangue. L'Arminuta si ritrova in una casa piena di fratelli e sorelle di sangue, ma per alcuni di loro non arriverà a provare mai nulla. Si affeziona soltanto a due, i più piccoli: Giuseppe, il fratellino, e Adriana, l'unica persona con cui crea un legame davvero forte e profondo all'interno della famiglia. E poi c'è Vincenzo. Vincenzo è il fratello maggiore, diciottenne dalla vita disordinata e l'atteggiamento da gangster. La relazione tra l'Arminuta e Vincenzo è assai più complessa e va a toccare situazioni e pensieri indicibili secondo la morale condivisa.

C'è tanta critica sociale, in questo romanzo, tanta riflessione su quanto l'ambiente influenzi il nostro destino e la nostra crescita. L'Arminuta è quasi un'aliena, tra i suoi fratelli: cresciuta in una casa della borghesia più agiata, con le migliori possibilità e genitori attenti all'educazione, è la prima della classe a scuola e ha aspirazioni per il proprio futuro. Dall'altra parte ci sono gli altri membri della famiglia, ignoranti e abbruttiti dalla fatica del lavoro quotidiano per portare in tavola piatti miseri, costretti ad accettare l'elemosina dei vicini e a fare debiti; per i suoi fratelli già andare a scuola è un lusso e infatti dei maschi soltanto Giuseppe, il più piccolo, finirà mai le scuole medie. L'Arminuta d'altra parte non condivide con la famiglia d'origine nemmeno la lingua, non sa fare i lavori di casa, non sa cucinare né badare ai fratelli più piccoli, mentre sua sorella Adriana, ancora alle elementari, gestisce la casa in assenza della madre con la naturalezza di un'adulta.

Sicuramente è un libro doloroso. Ci sono anche alcuni colpi di scena molto drammatici; in un caso l'autrice mi ha proprio colto di sorpresa, in un altro avevo già pensato a quell'eventualità ed ero preparata. Ad ogni modo lascia tanta amarezza in bocca e la sensazione di una giovane donna che, in futuro, ricostruirà se stessa e la propria costellazione di affetti ma non sarà mai più la stessa ragazzina spensierata allegra; quel sorriso, sulle labbra dell'Arminuta, non tornerà mai più per restare.

L'Italia ha bisogno di raccontarsi e di leggersi, di tramandare la memoria di ciò che è stata ed è oggi. Questo romanzo raccoglie un ultimo pezzetto di un Italia che è esistita soltanto fino agli anni '80 e poi si è piano piano evoluta, pur mantenendo sacche di povertà intellettuale ed emotiva preoccupanti. Abbiamo bisogno di emozionarci per l'Arminuta e di farci carico del suo dolore, per ricordarci da dove veniamo e risvegliare sentimenti di compassione vera, al giorno d'oggi, forse, un po' sopiti. L'Abruzzo ci ha regalato una brillante narratrice e consiglio caldamente di investire un po' del proprio tempo nell'assaporare questo romanzo.

martedì 2 maggio 2017

49. Gabriel Garcìa Màrquez - Dell'amore e di altri demoni

Più riguardo a Dell'amore e di altri demoniA volte i libri si chiamano. Non è una novità, ci sono libri che si attraggono naturalmente e quando ne leggi uno non puoi esimerti dal leggere l'altro. E poi ci sono libri che non sembrano collegati, apparentemente, ma che quando li leggi capisci che un legame c'è sempre stato e aspettava solo di essere scoperto. Questo è ciò che mi è successo con "Dell'amore e di altri demoni" di Garcìa Màrquez.
Avevo appena finito di leggere "Olalla" di Stevenson e mi guardavo intorno incerta sul da farsi, perché di libri da leggere ne ho migliaia (purtroppo un'espressione abbastanza puntuale, guardando la mia libreria...) ma scegliere il prossimo è sempre un piccolo dramma. Scegliere quale libro leggere appena se ne è concluso un altro vuol dire chiudere con quel mondo, con le atmosfere e i personaggi, con le emozioni che ancora aleggiano sottopelle e accettare di immergersi in qualcosa di totalmente diverso. Insomma, un'esperienza a suo modo traumatica!
Tornando a Stevenson, dando un'occhiata alla copertina del libretto ho notato che questo racconto/romanzo è stato accostato per ambientazione e atmosfere a "Manoscritto trovato a Saragozza" di Potocki, romanzo che aspetta di essere letto sul suo scaffale e mi occhieggia da un po'. Ho preso seriamente in considerazione l'idea di buttarmici, ma poi la ragione ha prevalso: la Polonia non mi urge, al momento, ho già un autore polacco nel novero degli scrittori letti e bloggati mentre scarseggio in Sud America. Quindi perché non spostarci da quelle parti?
"Dell'amore e di altri demoni" languiva da un po' sul mio comodino. Non potevo più posticipare il suo turno. A posteriori sono proprio felice di non aver indugiato oltre.

Questo non è il mio primo incontro con Gabriel Garcìa Màrquez e il suo realismo magico. Da adolescente lessi il capolavoro "Cent'anni di solitudine" (che mi sono ripromessa di rileggere, prima o poi, perché ricordo poco se non la difficoltà nel distinguere i personaggi...) e mi piacque moltissimo. Negli anni ho poi letto altre sue opere minori, come "Cronaca di una morte annunciata", e non mi ha mai deluso, anche se non sono comparabili con il romanzo succitato.
"Dell'amore e di altri demoni" appartiene a tutti gli effetti al mondo drammatico e violento venato di magia e leggenda dell'autore. Questa volta la storia si svolge a Cartagena de Indias, città sulla costa settentrionale della Colombia e, in passato, porto fondamentale per i traffici con l'Europa, l'Africa e il Nord America. L'epoca è il XVIII secolo, periodo in cui in Colombia era ancora in piena opera l'inquisizione spagnola e la storia narrata ha proprio i contorni della leggenda; anzi, ci viene proprio presentata come tale.
Lo scrittore racconta di aver presenziato alla riesumazione dei corpi contenuti in alcune tombe illustri (e altre meno) all'interno della cripta del vecchio convento Santa Clara, che nel 1949 doveva essere completamente restaurato e trasformato in hotel di lusso. Fatto storico effettivamente accaduto, eccovi una foto degli interni dell'hotel oggi:


Tornando alla narrazione, tra le tombe aperte rimane scolpita nella memoria dello scrittore il ritrovamento del corpo di una ragazzina i cui lunghi capelli rossi misuravano la bellezza di 22 metri! Il nome inciso sulla lapide è Sierva Marìa de Todos los Angeles e l'autore ne associa il nome alla memoria di una leggenda popolare locale, la storia di una ragazzina morta in seguito al morso di un cane rabbioso e poi considerata santa. E' così che incontriamo la nostra protagonista.

Sierva Marìa è una ragazzina di circa 12 anni, unica figlia di una famiglia di marchesi lentamente caduta in disgrazia. Rifiutata dai genitori, troppo concentrati su se stessi per prendersene cura, la bambina è stata cresciuta dagli schiavi neri della tenuta, di cui parla le lingue d'origine e dei quali conosce canti, rituali e credenze. La bambina dorme persino insieme a loro e si adorna di collane africane regalatele a scopo protettivo e benaugurante. Mangia e si comporta come una di loro, con cui è felice e a suo agio; sono le usanze e la cultura dei bianchi spagnoli che invece rifugge: si rifiuta di imparare a leggere e scrivere, non è interessata all'arte né alla religione e sfida qualsiasi comportamento sia considerato confacente ad una marchesina come lei. Segno particolare che la contraddistingue è la lunghissima chioma fulva, che porta costantemente acconciata in trecce per evitare che strisci per terra. Una novella Raperonzolo, che dalla nascita non ha mai potuto tagliarsi i capelli per un voto fatto alla Madonna.

Il dramma della ragazzina inizia un giorno in cui si reca al mercato con una schiava. Lì viene morsa lievemente da un cane randagio al piede; qualche tempo dopo si scopre che il cane in questione era malato di rabbia. Si staglia quindi l'ombra della malattia su Sierva Marìa: svilupperà anche lei l'infezione mortale?
Personalmente non sono riuscita ad affezionarmi a Sierva Marìa, che è una ragazzina irritante e a tratti inquietante, eppure le sue vicende mi hanno coinvolto con grande intensità. Pur sapendo fin dall'inizio che morirà, dato che lo scrittore ce ne mostra la tomba, il lettore rimane sul filo, pagina dopo pagina, nell'angoscia di scoprire come e perché la giovane morirà veramente.

Non che ci siano molti personaggi con cui è facile empatizzare o entrare in contatto davvero. I protagonisti di questo romanzo, dai principali ai secondari, sono tutt'altro che realistici: dai genitori di Sierva Marìa alla misteriosa (e pazza) Dulce Olivia, ci si trova di fronte ad una carrellata di personaggi stravaganti, estremi e grotteschi, quasi fossero tratti da fiabe o miti popolari. Questa è una delle caratteristiche che più mi colpiscono del realismo magico di Gabriel Garcìa Màrquez, il modo in cui riesce a creare dei personaggi assolutamente irreali, inumani, e tuttavia così rappresentativi dei pregi e dei difetti dell'umanità. Qualità tipica, appunto, della letteratura mitica.

Che c'entra il titolo del romanzo, però, con tutto questo? Be', fa riferimento a quello che è davvero il tema portante della storia, vale a dire l'amore visto come uno sconvolgimento dei sensi e della psiche, un sentimento che porta alla pazzia e alla rovina e quindi assimilabile ad una possessione demoniaca. Lo scrittore non è certo il primo a comparare l'innamoramento all'influenza di demoni! Lo sapevano già gli antichi, ma qui è presentato proprio in parallelo ad una sospetta possessione demoniaca, a carico, ahimè, della piccola Sierva Marìa.
L'amore è sempre drammatico e pericoloso in questo romanzo, tutti i personaggi preda di questo sentimento finiscono per trovarvi rovina in un modo o nell'altro. Sarà che spesso non si tratta del genere di amore che io ritengo davvero tale, una comunione di sensi e di intenti, la scelta di stare accanto ad una persona che ci rende migliori e che ci fa sentire tutto in modo più pieno... Qui invece l'amore è fatto di pulsioni irrefrenabili, di gelosie, di trasgressione; sono passioni che si consumano in fretta e che lasciano dietro a sé dolore, assenza, disgusto, tradimenti e solitudine.
Nemmeno i religiosi sono al sicuro da questo demone, anzi ne sono spesso vittime e, quando non ne fanno esperienza, sono carichi di risentimento e invidia per chi invece nella vita ha avuto il piacere di sentire il cuore battere più forte.
Amore, dunque? Mi si dica se è da ritenere vero amore quello di un uomo di più di trent'anni per una ragazzina di 12 anni, come accade nella vicenda.. No, follia amorosa, questo è il demone del titolo, la carnalità e l'idolatria estreme che si adattano a questi personaggi fuori dagli schemi. Follia che toglie la ragione se c'è e che dissecca l'anima se manca, come nella famiglia di Sierva Marìa, dove l'assenza di tenerezza e affetto è totale.

Non sono certa di quanto mi sia piaciuto questo libro, perché la sensazione che lascia non è piacevole, quanto piuttosto disturbante. Se si aprono le pagine di questo romanzo per cercare l'amore del titolo si resta delusi; se invece si avvicina senza preconcetti è una storia forte e davvero surreale che lascia tanti spunti di riflessione e regala colpi di scena ed emozioni. Di certo ne consiglierei la lettura, specialmente a coloro che già conoscono l'autore e ne apprezzano lo stile e le tematiche.

Uh, quasi dimenticavo! Che c'entra "Olalla" di Stevenson con questo romanzo? Be', niente. O meglio, nelle prime pagine appare un personaggio che si chiama Olalla e che tornerà, nel corso delle vicende, come un membro della famiglia protagonista. Insomma, una semplice coincidenza, niente di più, ma mi ha colpito. Che sia un nome tradizionale spagnolo più diffuso di quanto creda?