lunedì 27 febbraio 2017

40. Chad Taylor - Sala partenze

Più riguardo a Sala partenzeSono andata fino in Nuova Zelanda a pescare un libro sui vuoti, sulle assenze, sulle perdite incolmabili che ci cambiano un po' la vita.
"Sala partenze" è questo: un noir che in verità ha un po' del romanzo psicologico, un mistero insoluto che è soltanto una scusa per investigare la mente oscura del protagonista.

Chad Taylor è considerato uno dei migliori scrittori neozelandesi contemporanei. I suoi libri, che lui stesso ha deciso di definire noir nonostante sfuggano alle classificazioni, hanno vinto svariati premi; tuttavia ad una lettura "europea" pare chiaro che lo spessore letterario di cui parliamo lascia un pochino a desiderare nel panorama di una letteratura mondiale. Ciononostante ha punti a suo favore che ne rendono la lettura affascinante.

La prima cosa che mi ha colpito di questo libro è, come forse è ovvio, il protagonista. Credo che la scelta di una voce narrante inaspettata sia una caratteristica propria della scrittura di Taylor: nella fattispecie l'autore si serve di un uomo misterioso, dalle abitudini inusuali e dall'animo contemplativo persino, ma che nella vita fa il criminale. La storia si dipana saltellando tra presente e passato, tra i ricordi e il lento scorrere del quotidiano che di quotidiano, per il lettore medio, ha ben poco; il tutto letto attraverso gli occhi di Mark, che nel suo essere uno scassinatore abile e incallito risulta comunque una persona fredda, analitica e si percepisce come un narratore affidabile.
Il personaggio di Mark è così pacato, distaccato da tutto, anche dai soldi veri e proprio, così solo che viene spontaneo cercare di capire di più di ciò che l'ha portato a diventare così, cosa lo spinge a delinquere. Taylor non è un autore che offre grandi spiegazioni: è così, punto e basta, ci sono molti motivi probabilmente per cui è diventato così ma lo è stato fin da giovanissimo e continuerà ad esserlo.
Mark è l'incarnazione del tema portante del romanzo: l'incapacità di gestire la perdita, l'assenza, la negazione del distacco che si manifesta nell'appropriarsi con la forza di ciò che è altro e allo stesso tempo nel tenere tutto e tutti a distanza. Morboso nella mania di controllo, stalker senza chiari scopi, Mark non può suscitare vera simpatia perché ciò che fa è troppo inquietante, il modo in cui vive troppo trasandato e offensivo, e ciononostante non lo si riesce a condannare, perché l'amarezza in fondo alla sua anima è talmente manifesta da non poter essere ignorata.

Il secondo dettaglio che mi ha fatto pensare è l'ambientazione temporale. La vicenda si svolge a cavallo tra un presente identificabile coi primi anni Duemila e il 1979, anno in cui una ragazza adolescente compagna di classe di Mark, Caroline May, è svanita nel nulla. Lo scrittore associa alla scomparsa di Caroline un disastro aereo realmente avvenuto proprio nel 1979: un aereo turistico con a bordo 237 passeggeri e 20 membri d'equipaggio si schiantò nel corso di un volo di osservazione dell'Antartide contro il monte Erebus. Morirono tutti. Facendo qualche ricerchina ho scoperto che questo è considerato in Nuova Zelanda come il più grave avvenimento nella storia moderna del Paese. Infatti la Nuova Zelanda, dopo le guerre di colonizzazione combattute contro i Maori, non ha più subito alcun tipo di attacco, restando illesa anche durante la Seconda Guerra Mondiale.
Mi ha colpito molto come l'autore abbia scelto una catastrofe nazionale da associare alla propria storia, un periodo che tutta la nazione avrebbe riconosciuto come un momento di dolore, di lutto. Ciò che mi ha particolarmente fatto pensare è l'importanza che questo avvenimento ha ancora oggi sulla cultura popolare neozelandese. Noi in Italia di disastri aerei, stragi e mattanze ne abbiamo viste tante negli ultimi 50 anni, tanto che la loro memoria si affievolisce in fretta, lasciando un amaro in bocca che sa più di Stato colpevole e assente che di lutto nazionale. Nel modo in cui Taylor descrive la Nuova Zelanda ci vedo una nazione quasi bambina, inesperta, con la carne ancora tenera, troppo esposta alle intemperie della vita. Un Paese che non ha dovuto farsi le ossa e che per questo è rimasto un po' indietro, tra l'innocente e il tremebondo.  Abituata a considerare la Nuova Zelanda solo per la sua ricchezza paesaggistica, questo taglio più psicologico mi ha affascinato.

Anche i dettagli che l'autore inserisce contribuiscono a creare una percezione puntuale e particolareggiata del Paese e della città di Auckland. Ci sono tantissimi riferimenti geografici, dalle spiagge alle case colorate, dalla darsena ai tunnel labirintici di North Head (consiglio qualche ricerca su Google). Probabilmente la descrizione funziona maggiormente sul pubblico neozelandese, che questi luoghi li conosce e li vive davvero, ma regala anche al lettore straniero una maggiore autenticità. Inoltre i riferimenti ai mesi e alle stagioni, all'anno che procede a specchio rispetto alla vecchia Europa, danno una nota ancor più caratteristica.

Infine grazie ad uno scambio di battute tra due personaggi ho dato libero sfogo alla scimmia su Google e ho approfondito il fenomeno dei fa'afafine, il terzo sesso riconosciuto dalla comunità maori. Consiglio qualche lettura sul tema, tanto per stare sempre sull'onda del gender...

Alla fine questo libro mi ha catturato abbastanza, mi ha attirato tra le sue braccia, e mi ha lasciato un po' più sola e un po' più consapevole di quanto la vita vera non fornisca spiegazioni né risposte soddisfacenti. "Sala partenze" è un viaggio interessante nella letteratura gialla vista attraverso gli occhi di un popolo tanto distante da noi. Non imperdibile, ma a suo modo interessante...

mercoledì 22 febbraio 2017

39. Roald Dahl - Il libraio che imbrogliò l'Inghilterra

Più riguardo a Il libraio che imbrogliò l'InghilterraRoald Dahl è terribilmente famoso in tutto il mondo, soprattutto come scrittore per l'infanzia. Chi non ha mai sentito parlare della "Fabbrica di cioccolato" di Wonka? E "Matilda"? "Il GGG" è appena uscito nelle sale cinematografiche e mi dicono sia un buon adattamento del romanzo. Insomma, è stato un autore estremamente prolifico e non solo di romanzi. Roald Dahl infatti è stato anche scrittore di racconti, quasi tutti però scritti per adulti. Anche questi sono abbastanza conosciuti, almeno alcuni, perché lo stile chiaro, fluido e semplice di Dahl si presta ad essere letto dagli studenti di lingua inglese e versioni facilitate o annotate dei suoi racconti sono state pubblicate in edizioni scolastiche e utilizzate da molti professori. Io stessa, in quanto professoressa di inglese, ho più volte suggerito ai miei allievi più giovani (ma non solo...) di tentare la lettura di uno dei libri di Dahl.

In occasione del centenario della nascita dello scrittore, quei furboni della Guanda hanno pensato di far uscire un'intera collezione di libri contenenti i racconti di Dahl, opportunamente diluiti un paio a pubblicazione così da fare più soldi. (Sono polemica, lo so, ma un po' queste astute mosse commerciali mi infastidiscono)
Mentre ero in vacanza in quel di Bassano Del Grappa sono entrata in una libreria peculiare, o per meglio dire un bar peculiare, insomma una libreria-bar. Mi sono bevuta un bel macchiatone godendomi lo spettacolo della distesa di libri esposti sulle pareti tutto attorno a me e non ho potuto proprio esimermi dal comprare qualcosina. Tra i tanti tomi ho individuato il libricino che dà il titolo a questo post; mi ha attirato fin dal titolo e me lo sono portato a casa.

Questa pubblicazione include in verità due racconti: quello che dà il titolo al libro, "Il libraio che imbrogliò l'Inghilterra", e "Lo Scrittore automatico". Secondo il mio gusto personale il secondo è molto più accattivante del primo.

"Il libraio che imbrogliò l'Inghilterra" ci presenta una situazione inusuale: Mr. Buggage, un libraio antiquario, e la sua segretaria Miss Tottle gestiscono insieme una piccola attività commerciale, che di clienti ne ha ben pochi; tuttavia hanno incassi per migliaia di sterline alla settimana. Com'è possibile? La risposta è abbastanza scontata e semplice... Piuttosto, potranno questi due furboni portare avanti a lungo la truffa che ha reso loro finora così bene?
Questo racconto non si distingue certo per originalità e misteriosità. Anche il finale è abbastanza scontato e fin troppo tirato per le lunghe. Piuttosto ciò che colpisce è la descrizione grottesca, ributtante, assolutamente caricaturale dei protagonisti. Dahl dà prova di saper costruire dei personaggi macchietta davvero disgustosi. Impossibile non odiarli, impossibile non notare come la cattiveria e l'avidità che li caratterizza sia accompagnata dall'ignoranza e dalla maleducazione. Persino con la pessima resa in italiano della traduzione si nota la volontà dell'autore di farli parlare male. Forse, a proposito di traduzione, avrei preferito il titolo originale, "The bookseller" (Il libraio), molto meno pomposo e più conforme alla portata del racconto.

Il secondo racconto mi è parso invece più carino, un poco più misterioso, e ha riservato un colpo di scena non sconvolgente ma simpatico. Protagonisti, ancora una volta, due personaggi non esattamente accattivanti: Mr. Bohlen e Adolph Knipe, l'uno un imprenditore alle prese con la produzione dei primi computer, l'altro un giovane e geniale programmatore con il pallino della scrittura. E' proprio quest'ultimo a inventare, per diventare uno scrittore ricco e famoso, lo "Scrittore automatico", una sorta di computer in grado di comporre autonomamente nel giro di pochi secondi racconti di ogni genere, persino romanzi. I due da datore di lavoro e impiegato diventeranno soci in una manovra truffaldina che li renderà i padroni incontrastati dell'editoria di lingua inglese.
Anche in questo caso Dahl descrive i due protagonisti in modo comico, caricaturale, ma fa di più. Con ironia pungente critica il mondo dell'editoria e i colleghi scrittori, giudicandone le capacità tecniche, il gusto e l'avidità. Questa mania di fare soldi a discapito degli altri pare proprio essere un difetto umano che all'autore non va giù.
Altri momenti top di questo racconto sono l'uso della parola "epesegetico" e la frase in chiusura, di un'amarezza struggente, quasi fosse una preghiera dolorosa ai colleghi scrittori di professione, perché non svendano mai il proprio dono.

Oh, Signore, dacci la forza di far morire di fame i nostri figli.

Un libro da acquistare? Mah, non saprei che dire. Sono sì e no 80 pagine scritte grandi, si legge in un paio d'ore. Visto il prezzo non proprio economico credo se ne possa fare a meno, tranne per i cultori dell'autore...e comprare una bella raccolta cicciotta!

Nota conclusiva polemica, perché se no non sono contenta: le edizioni di cui dicevo poc'anzi, a cura di Guanda, hanno tutte copertine colorate, allegre, disegnate spesso in modo buffo e attraente per il pubblico più giovane. Il tipico genere di copertina che attira l'occhio dell'adulto non molto avvezzo alla lettura ma che vuole comprare un libricino al figlio/nipote/vicino di casa/figlio di amici e pensa che scegliendo Dahl andrà a colpo sicuro. Ecco, no. Questo libro, così come tanti altri della collana, non è affatto per bambini, ma proprio per niente. Anzi, oserei dire che tra le mani di un bambino potrebbe generare parecchi momenti di imbarazzo. Quindi sarebbe proprio carino se le case editrici la piantassero di produrre copertine così, facendo cadere in tentazione i meno attenti...

sabato 18 febbraio 2017

38. Dacia Maraini - Chiara di Assisi. Elogio della disobbedienza

Più riguardo a Chiara di AssisiChiara di Assisi è una delle sante più famose e venerate di Italia. La sua scelta di rottura, la decisione di abbandonare gli agi di una famiglia benestante, ancor più di quella di Francesco, e di abbracciare una vita di preghiera, penitenza e povertà l'ha resa un'icona di santità più di quanto possano aver fatto i presunti miracoli a lei attribuiti. Ma non è solo alla sua santità che è interessata Dacia Maraini; ciò che davvero l'affascina è la sua disobbedienza sociale, la ribellione nei confronti di ciò che la comunità, la famiglia, la regola si sarebbero aspettati da lei. Una fanciulla nel XIII secolo era destinata a diventare moglie e madre; volente o nolente, era poco più di materiale di scambio. Chiara, scrollandosi di dosso il giogo della società, rinuncia a tutto, anche al proprio corpo, pur di avere una libertà psicologica e mentale per l'epoca inconcepibile.

Ma andiamo con ordine. Dacia Maraini ha pubblicato questo libro nel 2013, quindi si tratta di una delle sue opere più recenti. Per Natale una cara amica che partecipa al gruppo di lettura, sapendomi interessata alla produzione della scrittrice dopo aver letto ed apprezzato "La lunga vita di Marianna Ucria" (di cui ho parlato qui), me ne ha regalata una copia. Avrebbe in verità voluto comprarmi un libro di Fosco Maraini, ma il padre di Dacia è praticamente impossibile da reperire in libreria, ormai...
Comunque sia, ho ricevuto questo libro per Natale e ho voluto subito dare soddisfazione a colei che me l'aveva dato leggendolo. Devo dire che non è uno dei lavori migliori della Maraini, almeno a mio avviso, però mi ha regalato qualche spunto interessante.

Ho messo questo libro nella categoria saggi, ma in fondo non lo è, a meno che non si accetti di definire tale anche una sorta di lungo monologo romanzato in cui si esplora il personaggio di Chiara di Assisi e si riflette sulle sue motivazioni.
La Maraini usa un espediente non esaltante per introdurre la propria scelta di soggetto: uno scambio di messaggi, ricevuto per via telematica da un'ammiratrice, che le chiede insistentemente di scrivere un libro su Chiara di Assisi. La scrittrice inizialmente è ritrosa, anzi, non ne vuole proprio sapere, ma in seguito alle lunghe insistenze della giovane fan - che poi ammette di non essere nemmeno una sua grande fan - inizia ad accumulare e ad esplorare materiale sulla santa.
Da qui in poi si snoda la parte centrale del libro, un lungo monologo di Dacia che si interroga sul personaggio di Chiara analizzandone ogni aspetto della vita. Attraverso agiografie, citazioni, in particolare rifacendosi ai documenti originali raccolti durante il processo di canonizzazione, ricompone il ritratto di una giovane donna forte, risoluta, piena di bontà e dedita al sacrificio, quasi al martirio.
Questa è la parte più bella del libro, a mio avviso. Chiara prende mano a mano forma davanti ai nostri occhi: impariamo a conoscere la famiglia in cui nacque, la sua infanzia, il futuro che l'attendeva, e poi come scappò di casa per raggiungere Francesco, il compromesso che dovette accettare di essere monaca di clausura invece che pellegrina come i frati francescani. L'autrice è puntuale e coinvolgente nel dipanare la storia senza fretta, donandocela a spizzichi e bocconi, saltellando un po' avanti e indietro seguendo il filo dei propri pensieri.

Non è emozionante in sé, questo libro, ma dà tanti spunti di riflessione. Credo che l'autrice volesse fare proprio questo: stimolare il lettore a fermarsi a pensare, a considerare l'epoca in cui questa santa è vissuta e come differiva dalla nostra, cercando di mettere anche in prospettiva, se vogliamo, le scelte tanto drastiche di queste giovanissime donne.
Una delle parti che più mi è piaciuta si concentra sui digiuni costanti e prolungati di Chiara d'Assisi. Non è l'unica santa con questo problema, se così possiamo chiamarlo: la Maraini ce ne offre una carrellata di sante mistiche anoressiche, prima tra tutte Caterina da Siena. Tutte donne di grande carisma e influenza non soltanto religiosa ma anche politica, donne che, suggerisce l'autrice, trassero la propria autorevolezza anche dalla negazione del cibo, che poi è negazione del proprio corpo, della propria esistenza materiale. Legato a questo argomento c'è un interessantissimo libro, intitolato "La santa anoressia" di Rudolph Bell e per chi fosse interessato all'argomento c'è anche un bel documentario, sebbene sia un po' scarno e affrettato, che si basa proprio su questo testo per indagarne la problematica: "Le Sante anoressiche" si può vedere in streaming su RaiStoria.

Un altro tema molto forte è la condizione nella donna in epoca medievale. Dacia Maraini è particolarmente impegnata sul fronte dei diritti delle donne e della storia del genere femminile. Quindi la sua analisi della situazione di Chiara, ma anche di molte altre sante medievali, va a sottolineare la terribile costrizione in cui queste fanciulle si trovavano, schiacciate dalle richieste esterne e private di qualsiasi volontà. In un'epoca tale, farsi monaca era riprendere possesso della propria vita, del proprio corpo, del proprio futuro. Certo, voleva anche dire rinunciare totalmente al mondo, alla famiglia, ma non dobbiamo escludere che così come oggi molte donne anche allora non desiderassero un focolare e tanti pargoli, soprattutto se per averli bisognava sottostare a tali condizioni.
L'indipendenza di Chiara non è totale, è comunque sottomessa a Francesco e le viene impedito di andare per le strade a curare i malati e ad elemosinare per vivere. Era inaccettabile che una donna vivesse così, esposta alla possibilità di essere disonorata in ogni istante, persino per un uomo anticonformista come Francesco. La Maraini si chiede a lungo se Chiara abbia sofferto di questa imposizione, se fosse un dolore per lei starsene chiusa tra quattro mura di cui rifiutava persino la donazione da parte del Papa, costretta ancora una volta a dipendere dal lavoro degli altri (nella fattispecie dei frati francescani che raccoglievano legna e cibo anche per le monache). Forse se lo chiede un po' troppo, perché è lì che il libro inizia ad incagliarsi, nella fissazione che l'autrice sembra avere per questo punto. Suggerisce più e più volte che la malattia che rese Chiara inferma per circa trent'anni, tanto che non poté più alzarsi dal letto, fosse in parte psicosomatica, un'espressione dell'impossibilità di muoversi al di fuori del convento. Può essere come può non essere; io avrei tagliato un po' su questo punto, perché sono illazioni e nulla di più, un po' come stare a discutere del sesso degli angeli.

Un ultimo punto di interesse per me è stata la dolcezza con cui la scrittrice si domanda se all'interno del monastero ci fossero libri. Ipotizza che ci dovesse essere almeno una Bibbia e delle agiografie o delle raccolte di testi spirituali, ma è quasi con dolore che pensa alla possibile assenza di testi. Capisco la preoccupazione di Dacia Maraini perché condivido il suo amore per i libri. C'è una curiosa intervista, piuttosto recente, in cui l'autrice mostra la propria casa, che come si può ben immaginare è straripante di libri. Lei sostiene che si tratti di più di 10.000 testi... Nessuno, anche in cent'anni, potrebbe leggere tanto. Di certo non io! Consiglio la visione per chi fosse invidioso, anche questa disponibile in streaming sul sito della Rai qui.

Il finale del libro invece non mi è piaciuto per nulla. Il ritorno dell'ammiratrice misteriosa, che dal mio punto di vista si rivela una psicopatica pericolosa, non aggiunge niente alla narrazione; anzi, secondo me toglie profondità e verità a ciò che fino a quel momento è stato raccontato. L'associazione tra santa Chiara e una psicopatica non va esattamente a favore della prima... In questo Dacia Maraini ha fallito e tutt'ora non capisco dove volesse arrivare, cosa volesse trasmettere con un personaggio tanto fastidioso, anche a livello epidermico. Peccato, non lo saprò mai...

Insomma, questo forse non è il romanzo che consiglierei di acquistare ad un nuovo lettore di Dacia Maraini, ma il suo modo di affrontare la figura di Chiara di Assisi è stato peculiare e può suscitare qualche riflessione soprattutto in chi ha interessi di natura femminista.

martedì 14 febbraio 2017

37. William Peter Blatty - L'esorcista

Quando si nomina "L'esorcista" subito nella mente fanno capolino le scene del celeberrimo film horror del 1973, ma forse non molti sanno che questo fu tratto da un omonimo libro, scritto dallo stesso autore che ne firmò poi la sceneggiatura.

Vista la tematica forte e l'evidente inquietudine trasmessa dalle scene più famose, forse molti si sentirebbero prevenuti nell'affrontarne la lettura. Anch'io ho avuto quest'idea per anni e, sebbene mi avessero regalato il libro parecchio tempo fa, non avevo mai avuto il coraggio di prenderlo in mano e leggerlo. Sottolineo che il regalo non era stato fatto totalmente a caso: io sono una discreta lettrice di horror, o almeno lo sono stata in gioventù, ma la tematica possessione demoniaca mi ha sempre messo a disagio, sicuramente più di zombie famelici o alieni assassini dallo spazio. Probabilmente sarebbe rimasto intonso sullo scaffale se un'amica non l'avesse adocchiato e chiesto in prestito circa un anno fa. A lei è piaciuto (e qui trovate il suo post al riguardo) e allora ho deciso di dargli una chance. Certo, ha dovuto aspettare ancora un bel po'...

Non ho ricordi chiarissimi del film, devo dire la verità, ma ciò che colpisce del libro, a mio parere, è che la piccola posseduta si vede veramente poco. I fenomeni più spaventosi, quelli che tutti appunto abbiamo impressi nella memoria fotogramma per fotogramma, accadono tutti nelle ultime 50-80 pagine. Per le prime 250, invece, i veri protagonisti sono altri.
Il perno attorno a cui gira la storia, più che la possessione, pare essere la casa dove risiede la famiglia MacNeal con tutti i suoi ospiti. L'attrice Chris MacNeal vive con sua figlia Regan, l'assistente personale che funge anche da istitutrice della bambina e due domestici in una villetta di Washington. Si sono trasferiti tutti lì a causa del lavoro di Chris e si stanno ancora ambientando, quando la piccola Regan inizia a lamentare strani fenomeni di disturbo nella sua camera da letto. Di lì a poco sembra ammalarsi improvvisamente, dando segni di squilibrio mentale.
Ciò su cui Blatty sembra puntare non è tanto il progredire del disturbo di Regan, quanto la reazione delle persone che le stanno attorno. Chris è la vera protagonista femminile del romanzo. Una donna affascinante e molto giovane ma con alle spalle già un divorzio e un grave lutto: la perdita del figlio maschio a causa di una malattia che i dottori non hanno saputo curare, o che hanno forse peggiorato. Una donna energica, che ama essere circondata dalla gente e stare al centro dell'attenzione di tutti, e che forse per questo trascura un po' quest'unica figlia, che passa la maggior parte del suo tempo da sola o con la giovane assistente. Chris è atea e appare anche abbastanza ignorante; sicuramente è una donna pronta a credere un po' a tutto e a niente, finché questo la intrattiene. Sotto sotto appare evidente che si tratta di una persona molto sola, una ragazzina mai cresciuta davvero. La sua vita è completamente sconvolta dal malessere di Regan. Di colpo è chiamata a mettere in prospettiva la sua vita, chiarire le sue priorità e decidere a cosa tiene di più: al suo lavoro, ai soldi o a salvare la vita di sua figlia ad ogni costo. Quella leggerezza, la spensieratezza che era inspiegabilmente sopravvissuta, almeno di facciata, alla perdita del figlio viene definitivamente stroncata, ma nel momento peggiore esce finalmente una forza e un senso pratico che la salvano in fondo dall'orrore di ciò che le accade intorno.
Il secondo protagonista invece è esterno alla famiglia, ma viene introdotto quasi subito. Si tratta di un prete, un gesuita dottore in psichiatria di nome Damien Karras. E' un uomo semplice, che viene da una famiglia povera, costantemente angustiato dal senso di colpa per l'abbandono della madre, che muore all'inizio del libro, e da un profondo disagio che mette alla prova la sua fede. Karras è sportivo, razionale, una persona pacata e brillante, ma forse anche a causa del ruolo di orecchio amico che ha assunto negli anni all'interno della congregazione per via della propria specializzazione inizia a non poterne più del peso che si porta dentro. Sono i tanti segreti dei confratelli, i dubbi, le incertezze e le paure di coloro che si confidano con lui e che lui deve confortare e consigliare ad avergli lentamente tarlato l'anima, fino a fargli dubitare della propria fede in Dio. Ciò che mi ha subito colpito di Karras è che, nonostante la sua età relativamente giovane (non è specificato chiaramente, ma dovrebbe avere poco più di 40 anni) il lettore lo percepisce come un vecchio. Quella stanchezza, quella disillusione che accompagna i suoi pensieri, le sue riflessioni, sono tipici di un uomo molto più anziano, un uomo stanco di vivere, che fa fatica a trovare un obiettivo. Io non sono riuscita ad accorgermi realmente di questo contrasto fino a che non entra in scena l'esorcista del titolo, padre Merrin. Merrin è l'opposto di Karras: un uomo ormai molto anziano e malato di cuore, ma dall'animo eccezionalmente forte e pieno di spirito, la cui fede brilla incrollabile.

Il caso di presunta possessione di Regan lo pone per l'ennesima volta di fronte al conflitto ragione-fede, che è anche un tema centrale del romanzo. Per l'intero corso delle vicende i protagonisti cercano di dare una spiegazione a ciò che sta accadendo alla piccola Regan, tentando di non farsi suggestionare e prendere dal panico ma procedendo in modo razionale e scientifico. E' affascinante come, nell'osservare gli eventi paranormali che si verificano, i primi a pensare davvero all'opera del demonio siano Chris e i medici che hanno in cura la bambina, cioè i rappresentanti di quella scienza atea che dovrebbe negare la possessione demoniaca; a non esserne convinto fino all'ultimo, invece, a cercare di ricondurre alla ragione anche ciò che non può in nessun modo essere spiegato dalla scienza è padre Karras e la Chiesa stessa. Anche il lettore segue il progredire del disturbo con ansietà, chiedendosi se i sintomi di Regan siano davvero riconducibili ad una patologia psichiatrica, e l'autore è bravissimo a mantenere l'ambiguità, a non dare mai chiari indizi di propensione per l'una o l'altra tesi. Ovviamente l'esorcismo finale rende nota la causa soprannaturale dei disturbi...ma intanto ci ha fatto riflettere su quanto potere ha la mente umana, su ciò che un problema psichiatrico può causare anche a livello fisico, sulle potenzialità nascoste dell'uomo.
Blatty peraltro si è informato bene prima di scrivere questo romanzo e deve essersi fatto una scorpacciata di testi a tema possessione demoniaca. Tra i vari libri citati voglio fare una menzione particolare per "Possession demoniacal and other" di T. K. Oesterreich, professore e studioso di fenomeni di possessione che pubblicò nel 1930 questa raccolta di storie vere (ovviamente ritenute vere dall'autore all'epoca) provenienti da tutto il mondo e risalenti a diverse epoche storiche. Il libro è ovviamente introvabile in formato cartaceo, ma la versione in inglese è scaricabile da internet in pdf in modo totalmente legale (come io ho prontamente fatto).

Lo stile narrativo di Blatty non è pregevolissimo, anzi lascia spesso a desiderare. Mi ricordo di aver finito il primo capitolo dicendo tra me e me "Ma questo autore sa scrivere?". Davvero, il primo e il secondo capitolo in particolare sono illeggibili. Invece poi si riprende, i dialoghi gli vengono decisamente meglio e gli capita anche di uscirsene, in momenti assolutamente insperati, in frasi di un lirismo meraviglioso. Blatty non parla a un pubblico istruito in materia religiosa, anzi specifica tutto e cita episodi della Bibbia piuttosto famosi, pur di permettere al lettore di comprendere ciò che sta succedendo (e di cogliere lo scontato parallelismo tra un passo del Vangelo in cui Gesù esorcizza Legione e il finale del romanzo). Insomma, niente pretese se non quella di accompagnare il lettore in una strana storia dai contorni paranormali e lasciare che questi empatizzi coi protagonisti e segua il destino della piccola Regan fino in fondo. Blatty pecca anche di disorganizzazione testuale, inserendo un sacco di sottotrame e personaggi inutili, che distraggono più che caratterizzare, ma alla fine lo perdoniamo perché il romanzo è godibilissimo e ciò che non è servito a nulla se non a riempire qualche paragrafo in più lo dimentichiamo.

Non posso dire che questo libro non sia inquietante: sarebbe una falsità. Molto, ovviamente, dipende dal proprio rapporto con l'occulto e quanto si crede che una possessione demoniaca possa succedere o meno nella realtà. Tuttavia il romanzo ha risvolti così intensi dal punto di vista psicologico e coinvolge emotivamente così bene da valere assolutamente una lettura. Di giorno e con la luce accesa, però!

mercoledì 8 febbraio 2017

36. Grazia Deledda - La madre

Sul sentiero avventuroso dei Nobel per la letteratura, questa volta mi sono imbattuta in Grazia Deledda. No, scherzo, è stato totalmente casuale, tanto che l'ho scoperto solo a metà lettura che era stata insignita del premio. Però Grazia Deledda è uno di quei nomi che tanto si sentono citare, una delle grandi scrittrici della letteratura italiana del Novecento, ma non mi era mai capitato niente di suo tra le mani. Invece tra gli scaffali dei libri usati a metà prezzo ecco spuntare "La madre", romanzo breve (o racconto lungo) che ho letto tutto d'un fiato.

Necessaria premessa: tra gli autori italiani storici, uno dei miei preferiti in assoluto è Verga. Mi piace il Verismo, il Realismo e il Naturalismo, mi piace quel ruvido che sa di verità, quei dettagli a volte sgradevoli ma evocativi del reale, del vissuto. La Deledda scrive questo romanzo nel 1920, quindi non c'entra nulla con Verga e la sua Sicilia post-unione d'Italia, ma in lei ho ritrovato quell'odore di umanità che mi piace tanto. Capisco però che non a tutti questo vada a genio, quindi lo dico subito: se non piace il genere non potrà farvi impazzire l'opera della Deledda.
Chi invece ama la polvere sulle scarpe, le rughe di stanchezza sul volto, la semplicità della  vita vera di paese ritroverà in questo libro un breve viaggio nella Sardegna di inizio secolo.

La scrittura della Deledda è travolgente. Senza pause, senza interruzioni quasi, la scrittrice ci trasporta nelle vite di un giovane prete, Paulo, e di sua madre, che gli fa da perpetua. In un susseguirsi di scene che nel linguaggio del cinema definiremmo girate in un unico piano-sequenza, cioè in un'unica ripresa senza stacchi, in tempo reale, viviamo passando dalla mente dell'una all'altro poco più 24 ore della loro vita, una giornata soltanto che però porta a gravi scelte e grandi sconvolgimenti.

La storia è ambientata ad Aar, piccolissimo paesello (credo inventato, ma non ne sono certa) in provincia di Nuoro, la città natale dell'autrice. Così, descrivendo usi e costumi del luogo, superstizioni e mentalità, la Deledda ci presenta la sua gente, coloro tra i quali è cresciuta. Non risparmia loro nulla: ogni difetto, tutta l'ignoranza e la povertà, non soltanto materiale ed intellettuale ma anche emotiva di quella gente rustica e isolata dal mondo, sono descritte negli abitanti del paese in cui Paulo è stato mandato come parroco. La Sardegna è sempre stato un mondo isolato, lontano; almeno così l'ho sempre percepita. Vederla rappresentare sulle pagine di un romanzo mi ha dato la possibilità di assaporarne gli odori (non sempre gradevoli), ammirarne i colori e ascoltarne i suoni. A tratti, nelle descrizioni dettagliate che l'autrice ne fa, mi è sembrato persino di sentirne il vento sulle braccia, sulla schiena.

La natura è violenta, aspra in Sardegna, così come le persone sono sanguigne, testarde. La Deledda non vuole denigrarne gli abitanti, ma non edulcora nemmeno la pillola. Li riporta così come lei li vede, nel bene e nel male, mettendone in luce soprattutto la semplicità, la schiettezza di intenti e sentimenti. E pur nella durezza di alcuni passaggi, l'autrice mostra una dolcezza, quasi uno sguardo pietoso nei confronti dei suoi personaggi, dei quali a volte sembra compatire la sorte. Sono i più fragili e soli ad attirare l'attenzione della Deledda: la ragazzina orfana e senza risorse, la prostituta, il vecchio cacciatore solitario, la ricca donna nubile. E naturalmente il prete, Paulo, che nella sua scelta di vita sacerdotale racchiude proprio il nocciolo di questa solitudine forzata, che col tempo può diventare un fardello gravoso.

Attraverso gli eventi che vedono coinvolti i protagonisti la scrittrice coglie l'occasione di riflettere su molte tematiche: l'amore, la famiglia, la morte, il valore delle nostre scelte e delle promesse fatte, il desiderio di ciò che non si può avere, la capacità di accettare le conseguenze delle nostre azioni. La giornata raccontata riserva montagne russe di angosce e colpi di scena, fino al finale, totalmente spiazzante, che nella sua crudezza getta su tutte le altre preoccupazioni una diversa prospettiva.

Non è un romanzo che colpisce come un pugno nello stomaco ma nemmeno uno che ci coccola l'animo. E' un racconto burrascoso, come il vento che soffia in apertura, che lascia in bocca l'amaro della sconfitta in ogni caso e allo stesso tempo l'apertura a un futuro che potrà essere diverso o bruciarsi nell'incapacità di reagire.

Molte persone mi avevano parlato di Grazia Deledda con poco entusiasmo. Non ho letto nessun altro suo libro, in particolare non ho ancora letto "Canne al vento", che da quanto ho potuto capire è il suo capolavoro; tuttavia il primo impatto è stato molto positivo. Una scrittura semplice e incisiva, che coinvolge i sensi e che scivola veloce, portando con sé il lettore pagina dopo pagina. Credo avrò molto piacere di approfondire la conoscenza...

domenica 5 febbraio 2017

35. Henrik Ibsen - Una casa di bambola


Martedì scorso sono andata a teatro a vedere una rappresentazione di "Una casa di bambola" di Ibsen. Aspettavo questo evento da qualche mese, da quando cioè avevo letto il testo dell'opera teatrale, ed ero curiosa di osservare come questa potesse essere resa sul palcoscenico. E' stata un'esperienza interessante, anche se non del tutto soddisfacente.

"Casa di bambola" di Henrik Ibsen è uno di quei titoli imprescindibili, una delle opere teatrali che ha influenzato un'epoca, che ha fatto scuola.
Ibsen rappresenta la società borghese della seconda metà diciannovesimo secolo ed ambienta la storia in Norvegia, sua patria di origine.
I protagonisti sono Nora, giovane moglie e madre di tre bambini, e il marito Torvald, impeccabile funzionario statale neoeletto direttore di banca. Sembrano una coppia unita e innamorata, che condivide opinioni, sogni ed ideali; naturalmente questa è solo la superficie di una realtà molto più cupa e complessa, che porterà gli eventi a succedersi in un drammatico finale.

Il personaggio di Nora è senza ombra di dubbio il fulcro della narrazione. Nora è la tipica donna medio borghese di fine Ottocento: ritenuta incapace di lavorare e di essere indipendente, ella è l'oggetto dell'amore e delle cure del marito dopo esserlo stata del padre. Ricopre il suo ruolo di moglie premurosa e madre amorevole alla perfezione, pur con qualche piccolo sotterfugio per ricavare piccoli momenti di piacere tutti per sé.
E' una donna oggetto, quella descritta dall'autore, una proprietà dell'uomo, prima del padre e poi del marito. Una bambola, come lei stessa si definisce, con cui loro amano giocare, come lei stessa gioca coi propri bambini. Una moglie-figlia che però lasciata a sé stessa non ha alcuna capacità, alcuna volontà.
La rappresentazione di Nora ha guadagnato all'autore parecchie critiche ed è stato anche accusato, se così si può dire, di voler portare un messaggio femminista. Ecco, questo no; Ibsen non aveva alcuna volontà di esprimere solidarietà femminista; tutt'al più era affascinato dal concetto dell'autodeterminazione ed era probabilmente più interessante analizzarlo dal punto di vista di chi con più fatica poteva svincolarsi dal giogo della società dell'epoca: la donna.
Vale forse la pena ricordare che non si tratta della condizione femminile contemporanea: Nora non è una di quelle mogli che si fanno mantenere e si godono la bella vita senza alzare un dito; è che all'epoca l'unico posto della donna all'interno della società era quello di madre e moglie e se una dell'estrazione sociale di Nora e per di più sposata si fosse messa a lavorare avrebbe messo in imbarazzo la famiglia, marito in primis. Nora è costretta a farsi mantenere dal marito. Dipende da lui totalmente, come noi da adolescenti dipendiamo dai nostri genitori oggi. Così, tanto per dire...

Durante il dipanarsi della vicenda assistiamo allo scontro tra Nora e le istituzioni, la legge, quale espressione del mondo maschile che lei non capisce e non accetta. La legge, secondo Nora, è ingiusta, perché considererebbe e condannerebbe una persona per un crimine che lei invece ritiene un dono d'amore, un sacrificio con profonde giustificazioni. Le aspettative di Nora sulla vita sono tutte molto romantiche, non hanno un reale riscontro pratico, e per questo ne è scottata. Parallelamente tutti gli uomini della sua vita l'hanno delusa, hanno disatteso le speranze che riponeva in loro. Nora è a un punto di svolta nella vita perché ha rinunciato a se stessa fin dall'infanzia, non ha mai sviluppato il proprio carattere, delle idee personali; si è invece affidata completamente e ciecamente al maschile e quando Torvald perde l'aura di forza e giustizia che fino a quel momento incarnava per Nora crolla il mondo intero. Non ha più punti di riferimento, non sa più cosa è giusto, nemmeno in cosa credere o no: legge, religione, tutto deve essere ridiscusso, ridefinito.

Lungi dall'essere nel giusto, entrambi i protagonisti sono personaggi pieni di difetti. Nora è una bugiarda seriale, quasi patologica; incapace di rinunciare a fare ciò che le passa per la testa ma volendo allo stesso tempo apparire perfetta agli occhi del suo uomo, agisce sempre di nascosto, tramite sotterfugi, raccontando un sacco di menzogne pur di mantenere la facciata e far procedere il gioco di cui è oggetto.
Torvald invece è un uomo profondamente egoista, egocentrico, a sua volta imprigionato nel personaggio che la società gli ha richiesto e la cui maschera è orgoglioso di indossare: padre modello, marito perfetto, grande lavoratore instancabile e onestissimo. Si vanta di essere forte, capace di qualsiasi cosa per difendere la sua famiglia, di avere a cuore soltanto il loro bene. In verità quel che mano a mano appare evidente è che ciò che gli sta davvero a cuore è la propria reputazione, la propria posizione sociale. Il modo in cui tratta Nora è rivoltante, pur con tanta innocenza, senza accorgersene, perché in fondo Torvald non si è mai fermato un giorno a pensare che Nora potrebbe non essere d'accordo con lui. E perché dovrebbe, quando lei non ha mai pensato di imporsi su niente, di contraddirlo in niente?
L'anima nera di Torvald esce alla fine dell'opera, quando si mostra anche disonesto pur di salvare il proprio onore. E persino peggiore, forse, di coloro che disprezza tanto per aver compiuto atti più o meno disonesti, perché lui si sente anche moralmente superiore. Fino all'ultimo Torvald pensa di essere nel giusto, non vede il proprio peccato, e anche sul punto di perdere la propria donna ciò che gli preme sembra essere ciò che penserà di loro la gente.

Ciò che a me hanno lasciato entrambi è una grande sensazione di solitudine. Pur essendo sposati da anni Nora e Torvald non si conoscono per niente, non condividono nulla. Prima della tragica notte narrata da Ibsen non avevano mai nemmeno parlato seriamente faccia a faccia una volta... Viene da chiedersi quanto questo accadesse all'epoca e cosa spingesse una coppia a sposarsi senza nemmeno avere la curiosità di fermarsi per un attimo e scoprire che tipo di persona ci si sarebbe trovati in casa, nel letto. Ragioni economiche, sociali, l'attrazione fisica...sono tutte giustificazioni che posso comprendere, calate soprattutto nell'epoca storica, ma davvero non riesco ad accettare che due persone possano condividere momenti così intimi senza tuttavia raggiungere mai un vero punto di unione, di contatto profondo.

Ibsen fa una scelta forte nel finale della storia e per questo fu molto criticato. Fu addirittura obbligato a scrivere un finale alternativo, con una sorta di happy ending in cui Nora resta con la propria famiglia e la crisi viene dimenticata: in tutta onestà una porcheria bella e buona, che faceva venire il voltastomaco anche al buon Ibsen stesso. Diciamocelo: quello scritto nella versione originale è l'unico finale realistico e maturo accettabile. E mi piace il messaggio di speranza che porta con sé, nel dolore della scelta drastica: Nora e Torvald hanno finalmente una possibilità, un'occasione di diventare due persone adulte, di sbocciare e scoprire realmente se stessi.

La messa in scena a cui ho assistito è quella con Filippo Timi e Marina Rocco, per la regia di Andrée Ruth Shammah.
L'idea di questa versione è che Nora non sia tanto una vittima della situazione, come spesso viene descritta, quanto una manipolatrice, che utilizzando le proprie armi migliori, cioè la sua avvenenza, il suo corpo, la sua capacità di sedurre in modo apparentemente innocente, tiene legati a sé i tre personaggi maschili della storia. Questa lotta tra il femminile e il maschile è stata rappresentata dalla regista attraverso la scelta, piuttosto particolare, di fare interpretare tutti e tre i personaggi maschili principali allo stesso attore, Timi appunto. Alcune scene sono state per questo obbligatoriamente un poco modificate, perché i personaggi maschili non si devono mai incontrare in scena, ma secondo me questo non ha causato grande sconvolgimento nella trama.
L'interprete femminile è stata secondo me bravissima: intensa, perfettamente nella parte e senza mai sbagliare una battuta, ha incarnato una Nora tutta rosa, una bamboletta vera e propria, frivola e civettuola ma terribilmente triste.
Un po' meno bene, a mio parere, il grande protagonista della serata. Timi è famoso per aver preso parte a svariati film e sceneggiati televisivi, oltre che per il suo lavoro di doppiatore. Un uomo dalla buona presenza scenica, che dev'essere un grande intrattenitore e molto bravo a improvvisare, ma che nei momenti più seri e intensi mancava un po' di potenza e che si è impaperato nelle battute qualche volta di troppo. Divertente, ma a volte un po' fuori luogo nell'interpretare ruoli affatto buffi.
Mi ha anche lasciato perplessa la scelta della regista di sottolineare la capacità manipolatrice di Nora, di mettere persino in dubbio che tutto ciò che lei racconta sul palco sia verità. Sono d'accordo nell'affermare che Nora usi la propria avvenenza, le lusinghe e i sotterfugi per raggirare il marito, così come tutti gli altri personaggi del dramma; ciò che però va sottolineato è che la condizione di Nora è tale, in quanto donna, da non permetterle altra strada se non quella di fingersi una graziosa bambolina compiacente per difendersi e reclamare i propri spazi. L'accusa di Ibsen è, a mio avviso, da mirare al sistema, alla società che riduce uomini e donne a interpretare ruoli che li rendono fasulli, a portare maschere per rientrare nei parametri richiesti e infine a scontrarsi, come se non si potesse raggiungere l'autodeterminazione e l'indipendenza nel rispetto reciproco, se non nell'amore.

Comunque venga interpretata, ciò che più mi ha colpito di quest'opera è la forte connotazione critica all'imposizione dei ruoli femminili e maschili. Sottolineando che si sta parlando di un lavoro del 1879, venitemi poi a dire che il gender se lo sono inventato gli studiosi sfaccendati negli anni '70...

giovedì 2 febbraio 2017

34. Tahar Ben Jelloun - Il matrimonio di piacere

Cos'è il razzismo?
Ci ha riflettuto tanto Tahar Ben Jelloun, autore marocchino, francese di adozione, che negli anni ha scritto tanti libri dedicati proprio al tema dell'immigrazione, del razzismo e del mondo islamico contemporaneo. Il suo ultimo romanzo, "Il matrimonio di piacere" è curioso perché ci fa, da europei, vestire i panni del doppiamente discriminato: già, perché mentre da noi in Europa i marocchini sono considerati africani come tutti gli altri e di certo non bianchi, in Marocco i suddetti abitanti si considerano bianchissimi, proprio come noi, e schifano i neri, che invece sono africani, sporchi, inferiori. I discriminati che discriminano sono un punto di vista davvero peculiare, che mette in una prospettiva a suo modo ironica tutto il razzismo che nei Paesi europei viene riservato ai nordafricani.

Procedendo con ordine, "Il matrimonio di piacere" è un romanzo strano, che si presenta come una storia d'amore ma che in verità è la storia di una famiglia e di romantico ha ben poco. Una storia nella storia, peraltro, come un gioco di scatole cinesi, come una nuova "Mille e una notte". Infatti l'autore presenta un narratore, uno di quegli uomini raminghi che, senza radici, viaggiano da un villaggio e da una città all'altra per tutto il Marocco (e forse non solo, forse esplorando tutto il Maghreb o addirittura spingendosi fino all'Africa subsahariana) con la sola occupazione di narrare storie, appunto. Una figura fantastica, letteraria ormai, che in Europa non esiste più da secoli ma che forse è sopravvissuta in alcune zone dell'Africa, dove le tradizioni si sono conservate nonostante la colonizzazione. Questo misterioso narratore si accinge quindi a raccontare una storia, la storia di Amir e Nabou, del loro amore e delle conseguenze drammatiche che ne seguirono.

Non è una storia allegra, quella di Amir e Nabou. Amir è bianco, marocchino, figlio di una famiglia stimata e benestante dedita al commercio, sposato giovanissimo come si conviene tramite un matrimonio combinato e padre di tre figli. Nabou è senegalese, una giovane donna indipendente, sensuale e bellissima, animista, che non ha paura del sesso e soprattutto è nera. Tuttavia Amir e Nabou si conoscono in occasione di un viaggio di lavoro di Amir, durante il quale egli decide di contrarre un matrimonio di piacere, come è previsto dalla legge islamica.
Io non ero a conoscenza di questa pratica e mi ha molto sorpreso. Pare che, se un uomo si trova a stare lontano da casa per un lungo periodo di tempo (qualche mese, ad esempio), per evitare che egli pecchi andando con le prostitute è possibile sposarsi a scadenza, a patto di pagare una generosa dote alla moglie di piacere. Insomma, un'amante autorizzata e legalmente riconosciuta, concessa però solo finché l'uomo non torni dalla propria famiglia. Un interessante, per quanto tristemente maschilista, metodo per evitare il sesso casuale.
Amir sceglie di sposare Nabou per diversi anni di seguito, poiché rimane ammaliato dalla passione e dalla forza della donna, dalla sua mancanza di inibizioni, dalla sua capacità di dare e provare piacere. Nabou non è una sciocca, è una donna intelligente e un poco istruita, quindi sa anche capire e consigliare Amir e intrattenerlo con le storie della propria tradizione. Amir non può che perdere la testa per Nabou, soprattutto quando per moglie si ritrova invece una donna fredda e distante, che gestisce la casa in modo impeccabile ma che non è mai riuscita a dargli vere emozioni. Non che Amir se lo aspetti: in Marocco è quasi visto con contrarietà un amore passionale, quasi fosse licenzioso persino tra marito e moglie.

La svolta drammatica si ha quando Amir, dopo l'ennesimo periodo di relazione con Nabou, si rende conto di amare teneramente la donna e di non volersene più separare. Decide quindi di portarla con sé in Marocco e di sposarla a tutti gli effetti, prendendola come seconda moglie. La scelta di Amir è folle dal punto di vista razionale: sa che la prima moglie non accetterà mai Nabou, perché si vedrebbe soppiantata nel proprio ruolo di padrona di casa, e soprattutto sa che la popolazione locale, i marocchini, non vedranno mai la bella Nabou come una donna libera e degna di rispetto, ma solo come una schiava nera, buona per fare i lavori di casa ed essere all'occasione sfruttata come sfogo sessuale. Ciononostante Amir non è il tipo di uomo da farsi molte domande e scrupoli e la coppia si trasferisce a Fès.
Non ero a conoscenza di questo viscerale odio da parte della popolazione nordafricana nei confronti di chi è originario delle regioni a sud del Sahara. Non posso dare per certa la veridicità della situazione descritta dall'autore, ma credo che volesse portare alla luce una problematica molto forte del proprio Paese d'origine. Immagino che anche lui senta l'assurdità di questo atteggiamento, avendo provato lo stesso trattamento in Francia, dove vive da quando aveva trent'anni. Dalle pagine della storia pare che in gran parte il disgusto per la popolazione di pelle nera sia dovuto alla loro sorte durante il periodo schiavista, come se la colpa di essere stati imprigionati, violati e venduti fosse delle popolazioni stesse che l'hanno subito, della loro debolezza. Non a caso uno dei termini dispregiativi rivolti ai neri in Marocco è abid, il corrispettivo di schiavo.

Da lì in poi la storia prende una piega più cupa, a tratti drammatica, mentre la storia della famiglia di Amir si dipana, tra figli, nipoti e un Marocco che, dagli anni '40 in cui la storia ha inizio, cambia velocemente, in preda ai tanti sovvertimenti di potere, fino ad arrivare ai giorni nostri. Amir e Nabou perdono importanza, escono di scena, e l'occhio di bue si accende sui loro discendenti fino a Salim, ragazzo giovane e istruito che si ritrova, a causa del colore della propria pelle, a rifare il percorso seguito dalla nonna tanti anni prima, ma al contrario: tornerà in Senegal, riscoprirà cultura, tradizioni e lingua di un popolo che non aveva mai incontrato e riabbraccerà le proprie origini, diventando davvero africano.
Mentre la prima parte della storia è molto dettagliata e lenta, la storia dei loro discendenti è affrettata, spezzettata, come un susseguirsi di flash sempre più veloci. Rallenta un po' su Salim ma poi riprende a correre, arrivando all'epilogo con un senso di vuoto improvviso. Ebbene, viene da dire, finisce così? E Nabou, la bella Nabou, la lasciamo così, senza una parola di più?

La scrittura di Tahar Ben Jelloun è fluida, chiara e leggera, come bere acqua fresca in una giornata calda. Il libro è di 231 pagine ma si può leggere in una giornata. Non è un romanzo che vien voglia di lasciar giù e fare altro, il che è un gran successo per l'autore. Sottolineo questo perché ho trovato peculiare quanto la narrazione mi prendesse nonostante la trama in sé fosse, a mio parere, piuttosto scialba e deludente. Sì, molti spunti sono interessanti, soprattutto quest'immersione in una cultura completamente altra eppure così simile per certi aspetti (uno su tutti, ad esempio, l'odio per gli immigrati, che rubano il posto ai mendicanti locali...); tuttavia mi aspettavo emozioni che non ho provato, svolte narrative che non sono mai avvenute, conclusioni più pregnanti, più forti. Sarà che mi aspettavo davvero una storia totalmente costruita attorno alla relazione tra Amir e Nabou e l'inserimento da un certo punto in poi di tutti questi altri personaggi mi ha un po' spiazzato...
La storia è anche ricca di deviazioni, poiché i protagonisti incappano in continuazione in altre storie, in avventure che qualcun altro ha vissuto, a volte reali e a volte favolesche: non importa, l'autore ce le racconta tutte. Ci sono persino un sacco di dettagli inutili, specificazioni che poi non portano da nessuna parte, come cul de sac narrative che forse, nell'economia del romanzo, avrebbero potuto essere eliminate.

Vorrei anche sottolineare la scelta dello scrittore di inserire tra i personaggi principali un uomo affetto da sindrome di Down. Si tratta di Karim, uno dei figli di Amir avuti con la prima moglie, ed è descritto come un giovane meraviglioso, un'anima luminosa al limite della santità. Per quanto non sia stata conquistata da una raffigurazione così spiccatamente positiva da cadere nello stereotipo, mi ha colpito il fatto che l'autore abbia pensato di includere un disabile all'interno di una società in cui, di disabilità, noi europei non sentiamo mai parlare.

Che dire alla fine di questo libro? Mi ha tenuto compagnia in modo egregio e mi ha permesso di sguazzare per qualche ora in un Paese africano di cui non sapevo (e non so tuttora, nonostante questa lettura) praticamente nulla. Consiglierei l'autore come uno scrittore davvero dotato e il romanzo in questione se si cerca un storia facile, quasi da ombrellone. Non consiglierei invece il romanzo se si ha intenzione di leggere di una storia d'amore più che di una dinastia.

P.S.: questo libro ha riportato alla ribalta in me una delle domande che mi sono tanto posta: uno scrittore nato e cresciuto in Marocco ma che vive da quasi 40 anni in Francia può davvero essere considerato uno dei massimi esponenti della narrativa marocchina? Non è ormai da considerarsi francese, soprattutto visto che scrive in francese? O si dovrà piuttosto tener conto delle ambientazioni e delle tematiche che tratta, in questo caso quasi sempre legate al Paese d'origine?
Un dubbio che non riuscirò mai a chiarire davvero, temo!