domenica 29 gennaio 2017

Dell'ossessione di possedere libri

"Cosa farei senza i libri? Ne ho la casa piena, eppure non mi bastano mai Vorrei avere una giornata di trentasei ore per potere leggere a mio piacere. Tengo libri di tutte le dimensioni: da tasca, da borse, da valigia, da taschino, da scaffale, da tavolo. E ne porto sempre uno con me. Non si sa mai: se trovo un momento di tempo, se mi fanno aspettare in un ufficio, che sia alla posta o dal medico, tiro fuori il mio libro e leggo. Quando ho il naso su una pagina non sento la fatica dell'attesa. E, come dice Ortega y Gasset, in un libro mi "impaeso", a tal punto che mi è difficile spaesarmi. Esco dai libri con le pupille dilatate. Lo considero il piacere più grande, più sicuro, più profondo della mia vita."

Dacia Maraini - Chiara di Assisi. Elogio della disobbedienza





sabato 28 gennaio 2017

34. Joseph Conrad - The duel

Il libro del mese di gennaio del gruppo di lettura è "The Duel" di Joseph Conrad, conosciuto in Italia col titolo "I duellanti" e piuttosto famoso anche per il film a regia di Ridley Scott.

Mi ha subito colpito questo spostamento d'attenzione dall'atto stesso del duello ai protagonisti nella scelta di traduzione del titolo e mi sono chiesta se avrebbe avuto delle notevoli ricadute all'interno della storia. Be', devo dire di no. Sebbene Conrad volesse sottolineare l'importanza del duello in sé, i duellanti Feraud e d'Hubert sono in fin dei conti i perni attorno ai quali si sviluppa la vicenda.
Vale forse la pena ricordare qui che "The Duel" è un racconto e non un romanzo, sebbene si articoli in quattro capitoli. Originariamente fu pubblicato all'interno di una raccolta e solo successivamente, probabilmente per scelte di marketing e commerciali più che letterarie, è stato messo sul mercato singolarmente.

La storia si apre quindi con due giovani soldati dell'esercito napoleonico, impegnati nelle campagne belliche come ussari. Al raffinato, cortese e razionale d'Hubert, francese del nord di buona famiglia, viene ordinato di arrestare il collega Feraud, passionale e umorale francese del sud di umili origini. Egli infatti si è macchiato della colpa di aver sfidato a duello - e ucciso - un uomo - un civile - nonostante l'esplicito divieto da parte di Napoleone stesso di accettare duelli per tutti i soldati in forza al suo esercito. D'Hubert si reca, seppur malvolentieri, a svolgere questo ingrato compito, ma quando finalmente trova Feraud e gli comunica la notizia questi reagisce in modo inatteso: ferito nell'onore, lo sfida a duello. D'Hubert cerca in tutti i modi di sottrarsi all'occasione, che risulta non solo illegale ma anche priva di testimoni; tuttavia il suo senso dell'onore e l'insistenza al limite della follia di Feraud lo inducono ad accettare.
Inizia così una serie di duelli che si susseguono negli anni, mano a mano che la guerra prosegue e i due fanno carriera, sempre parallelamente e senza mai incontrarsi né incrociarsi se non per sfidarsi ancora e ancora.

La trama è piuttosto semplice e si rifà a una storia vera (o ritenuta tale) che vide due ufficiali napoleonici, Dupont e Fournier, sfidarsi a duello per 19 anni per un totale di circa 30 volte. Conrad, venuto a conoscenza di questa storia, la sfrutta per rappresentarla sullo sfondo della parabola napoleonica. E' infatti evidente il parallelismo tra la salita al potere e poi la caduta dell'Imperatore di Francia e il destino dei due duellanti: D'Hubert è un perfetto illuminista, gentile, appartenente a quella classe sociale che ha vissuto momenti difficili dopo la Rivoluzione Francese, ma che alla fine trionferà nuovamente nella Restaurazione, Feraud è invece sanguigno, membro di quel popolo che scalpita per farsi strada e rivendicare il proprio posto nella società. Lo stesso codice d'onore che sancisce i loro duelli è un rimasuglio del vecchio ordine sociale, che sopravvive malgrado perda mano a mano valore e non segua più le regole tradizionali.
Il punto di vista rimane per quasi l'intera vicenda quello di D'Hubert, il che rende quasi inevitabile un moto di empatia nei suoi confronti: Feraud viene descritto alla stregua del pazzo omicida, quindi nella sua innocenza di fondo D'Hubert non può che farci una bella figura. Anzi, probabilmente perché i valori nel tempo sono molto cambiati, viene difficile al lettore comprendere il perché D'Hubert faccia di tutto per risparmiare Feraud, perché insabbi gli eventi e non lo denunci, mettendolo nelle mani delle autorità. Al contrario, gli salva la vita più volte, e forse questo è uno dei misteri più profondi della storia: il legame che si viene a formare tra i due duellanti è molto intenso e allo stesso tempo difficile da definire. Si potrebbe quasi dire che è un mix di odio e tenera amicizia. Sta di fatto che razionalmente D'Hubert sa che questi continui duelli con Feraud sono insensati, che lui stesso è sempre più stanco della situazione, ma non riesce a smettere di accettare le sfide dell'avversario.

Tutto ciò sullo sfondo, come si è detto, dell'era napoleonica. Lo scrittore delinea l'ascesa di Napoleone attraverso la carriera dei duellanti e l'impegno bellico costante in cui sono coinvolti. La parte che colpisce di più, però, è sicuramente la campagna di Russia. Sebbene Conrad non si dilunghi mai nelle descrizioni e si limiti a descrivere qualche dettaglio della situazione dei soldati durante questa guerra, ciò che ne otteniamo è un racconto doloroso, terribile, di uomini ridotti all'osso, stanchi e demoralizzati, disposti a tutto per sopravvivere e tornare alle proprie case. 
Anche la Restaurazione è un momento di dolore per chi è stato coinvolto in queste vicende storiche. L'epurazione mirata dei sostenitori di Napoleone, il crollo delle speranze e soprattutto la caduta in disgrazia di tutti coloro che, durante il suo governo, erano riusciti a fare carriera. D'Hubert stesso si salva solo grazie alla proprie origini; per Feraud non c'è speranza di ricostruirsi un futuro.
Ed è forse proprio grazie alla tensione del duello che le vite dei due protagonisti non si spengono nella sconfitta: il duello in fondo dà più valore alla loro vita, la rende più preziosa perché sanno che potrebbero perderla in qualsiasi momento. Alcuni dei momenti più belli del romanzo sono le riflessioni di D'Hubert prima di battersi con Feraud: considerazioni sulla paura, sulla bellezza della vita, su ciò che davvero dà senso alla nostra esistenza e il significato che invece scegliamo di dare a ciò che ci succede.

Un'altra osservazione interessante è l'effetto che questo duello ha su chi non ne è coinvolto. Fin da subito la storia del duello si trasforma in leggenda, anche a causa della segretezza in cui è avvolta la sua origine. Il popolo, curioso e affamato di emozioni, immagina drammi e nefandezze; il potere del passaparola e della suggestione è tale da infamare con la calunnia la reputazione di D'Hubert, un uomo sempre attento alla correttezza e alla rispettabilità. Si arriva al punto da non riuscire più nemmeno ad accettare per reale quella che è invece la verità. La maldicenza ha la meglio, se non messa subito a confronto con la realtà, sui fatti.

Un'ultima considerazione la riserverei alle figure femminili nella storia. Sono solo due di qualche rilievo: la sorella e la futura moglie di D'Hubert. Queste rimangono sempre al di fuori delle vicende del tempo, tenute al sicuro dagli uomini che vanno a combattere e avulse dal contesto storico e sociale. Sono chiuse nel loro mondo di mondanità frivola, fatto di casa, famiglia e amori combinati, tenute all'oscuro da tutto, persino dagli accadimenti più dolorosi e spiacevoli. Tuttavia è piuttosto forte la sensazione che siano in realtà queste due donne a dare a D'Hubert un senso di sicurezza, di tranquillità, di continuità. Grazie a loro a qualcuno da cui tornare, una finalità, in fin dei conti un motivo per non morire. Le donne, nella loro marginalità, danno un senso alla vita di questi grandi uomini, e lascia l'amaro in bocca vedere quanto Feraud sia solo, anche da questo punto, come sembri mancargli uno scopo vero, che dia valore al suo vivere, alle sue sofferenze.

Insomma, questo raccontone non mi è dispiaciuto affatto e mi ha un po' fatto far pace con Conrad, che avevo già letto ma non avevo mai davvero digerito nelle sue opere più famose. Non è una storia che emoziona, che rimane nella memoria e che cambia la vita. Non credo che Conrad mirasse a fare alcuna di queste cose. Invece è una piacevole compagnia, una lettura divertente e a tratti malinconica che non sconvolge e non pesa. E poi è così breve che la storia è finita prima ancora di rendersene conto...

mercoledì 18 gennaio 2017

33. Raymond Queneau - Zazie nel metrò

Più riguardo a Zazie nel metròMah...
Temo che mah sia il commento più sensato che io possa dare a questo libro.
Sarà che è francese, sarà che vuole essere un romanzo nonsense, genere che a me non piace, (almeno credo voglia esserlo, se no siam messi male), sarà che sono troppo poco intelligente per capire la grandezza di Queneau in quest'opera... Sta di fatto che ricordo pochi libri letti ultimamente che mi abbiano lasciato questo senso di tempo perso.
Ma andiamo con ordine.

"Zazie nel metrò" è la storia di una bambina, Zazie appunto, dall'età non meglio specificata che potremmo ricondurre agli 11/12 anni (grazie Einaudi per la copertina che non c'entra una mazza), che viene affidata per due giorni allo zio Gabriel. La ragazzina si rivelerà maleducata e attiraguai, dando luogo a una carrellata di incidenti, incontri, litigi e follie per le strade di Parigi.
La trama potrebbe sembrare simpatica, persino divertente. Invece a me questo romanzo non ha fatto ridere per nulla. Ci sono critiche autorevoli che mi fanno sapere che questo romanzo non voleva essere né serio né far ridere ma entrambe le cose e nessuna, perché è appunto una storia incentrata sul doppio, lo speculare, i contrari che finiscono per annullarsi, mischiarsi, confondersi. Sarà, sta di fatto che non l'ho trovato mai per nulla divertente.
Certo, è d'uopo ricordare che io non sono esattamente una mattacchiona, per cui l'arte di farmi sbellicare dalle risate è assai dura.

I protagonisti di questo racconto sono grotteschi, pieni di difetti e contraddizioni. Zazie è una ragazzetta pestifera, volgare, insofferente a qualsiasi situazione e tipo di autorità, arrogante e incapace di prendersi cura di sé, bugiarda e chi più ne ha più ne metta. Pare evidente che sia totalmente ineducata, incapace di creare relazioni civili di rispetto reciproco con le altre persone. Lei vuole, ordina, fa, senza ascoltare nessuno ma cercando poi aiuto e complicità nei più grandi al momento del bisogno. Ecco, mi pare abbastanza evidente che come personaggio mi abbia stomacato un filino.
Non è certo colpa sua; come sempre in presenza di bambini o adolescenti fuori di testa facciamo risalire la colpa ai genitori e qui di colpa ce n'è eccome!
La madre di Zazie la molla allo zio per andare a fare una due giorni di sesso col non-fidanzato, a cui pare corra dietro disperatamente. La stessa donna è famosa per aver ammazzato il padre di Zazie dopo averlo sorpreso in flagrante a molestarla sessualmente. Decisamente molte cose si spiegano... E' la stessa Zazie a raccontare questa storia al primo uomo incontrato per strada, con una freddezza allucinante, da far venire la pelle d'oca.
E che dire dello zio Gabriel? Personaggio fondamentalmente buono, ma inconcludente, non ha idea di come si gestisca una ragazzina e la trascina in situazioni e avventure che di certo non sono adatte alla sua età. Inoltre Gabriel incarna fin dall'inizio la doppiezza che caratterizza tutta l'opera: omone grande e grosso, dice di fare la guardia notturna mentre invece è la star di un famoso spettacolo in drag. Per tutto il corso del romanzo Zazie tempesta Gabriel di domande che non ottengono mai risposta, tra cui la più insistente è "Sei ormosessuale?" Sì, proprio ormosessuale, perché la ragazzina non sa nemmeno cosa voglia dire quella parola, ma l'ha sentita e non c'è modo che smetta di utilizzarla, storpiandola. Gabriel è l'anima d'artista del romanzo, colui che cita "Amleto" di Shakespeare e Robert Burns nei momenti più inaspettati, trasformandoli però in divagazioni filosofiche senza un filo logico chiaro.
Attorno a Zazie e Gabriel si affollano una schiera di personaggi uno più assurdo dell'altro, che ripetono ossessivamente le stesse frasi, gli stessi atteggiamenti, gesti, in una sorta di continua recita della propria parte. Non ritengo sia del tutto casuale quindi se molte delle azioni all'interno del romanzo vengono descritte da Queneau con lo stile tipico del teatro, tra parentesi.

Le identità si sommano, si scambiano, si confondono. Il personaggio più inquietante è certo l'uomo senza nome, o dai mille nomi, colui che entra in scena con gli atteggiamenti del pedofilo che accosta una ragazzina sola e si trasforma poi in questurino, vigile, scassinatore con fantasie di stupro e amante di vedove sole. Cambia nome e personalità come cambia costume, ma chi sia veramente non lo scopriremo mai.
Tutto questo certamente porta a delle riflessioni sulla personalità, la natura delle persone e le maschere che si mostrano agli altri fino a non sapere nemmeno più qual è la nostra vera identità. A mio parere questo tema però è stato trattato assai bene, sicuramente meglio, da altri autori, quali Pirandello tanto per citarne uno, e senza mettere in scena una storia tanto contorta.

La lingua in cui questo romanzo è scritto è un altro capitolo interessante. La traduzione italiana, mi dicono, non è delle migliori, ed è vero che risente di tutto un tot di modi di dire ormai arcaici e invenzioni linguistiche che forse stavano in piedi in francese ma in italiano non molto. E' però un dato di fatto che tradurre romanzi ricchi di giochi di parole, storpiature e montagne russe sintattiche non sia sempre fattibile. Non ho idea di come suonasse l'originale francese, ma in questo libro c'è un'accozzaglia di termini gergali e inventati, forme verbali in insalata e tanto tanto altro. Se devo essere sincera ho fatto un pensiero davvero cattivo: se non fosse stato Queneau l'autore, quindi uno scrittore già famoso e considerato geniale, questo romanzo sarebbe davvero stato pubblicato? Si sarebbe acclamata la sperimentazione linguistica o si sarebbe detto che l'intenzione poteva essere buona ma che il risultato è troppo, e alla fine perde di impatto reale? Perché a me ha fatto un po' quest'effetto.
Visto che ho letto Gadda da poco, si potrebbe dire che i due tipi di sperimentazione linguistica si assomigliano. Secondo me per nulla. Mentre in Gadda a mio parere le evoluzioni linguistiche tendono a dare forma al contesto e a caratterizzare i personaggi, in Queneau non ho visto la stessa puntualità. Senza nulla togliere alla grandezza dell'autore, lungi da me...

Verso la fine gli eventi prendono una piega decisamente nonsense, che fanno rimettere in prospettiva tutto ciò che è successo prima. Visto che l'autore voleva evidentemente scrivere un'opera di questo genere, quanto devo prendere per vero di ciò che è stato narrato precedentemente?

Ora, leggendo questo commento traspare a chiare lettere il mio disappunto. Mi spiace, perché sono ben consapevole di avere dei limiti personali e temo che questa volta mi abbiano impedito di apprezzare un'opera che da molti è considerata geniale e che rientra di diritto nei classici del '900. Invece io, purtroppo, son qui che guardo le pagine e mi chiedo perché mai questo libro meriti di essere ricordato come un classico. Non sono andata da nessuna parte, nemmeno nel metrò, proprio come Zazie che il metrò non lo prenderà mai; e se il messaggio che l'autore voleva darmi era proprio questo be', diciamo che questo è un tipo di letteratura che non mi interessa granché.

domenica 15 gennaio 2017

I bambini "peculiari" di Miss Peregrine - Ransom Riggs

Più riguardo a Hollow CityNon è facile al giorno d'oggi scrivere storie di persone con poteri soprannaturali e mostri orrendi scatenati a dar loro la caccia, di viaggi nel tempo e atti eroici volti a salvare il mondo. Non è facile perché è già stato scritto un po' tutto e il contrario di tutto ed è facile cadere nel banale o attirarsi sospetti di scopiazzatura. A mio parere il buon Ransom Riggs se la cava discretamente, riuscendo a regalarci una storia graziosa ed emozionante senza essere troppo banale.

La saga dei bambini "peculiari" (uso peculiari come traduzione di peculiar, perché la versione italiana speciali secondo me non rende affatto l'idea e trasmette un messaggio semanticamente diverso: questi bambini sono strani, diversi, non speciali; la loro particolarità non li rende più preziosi di qualsiasi altro bambino) era iniziata con "Miss Peregrine's Home for Peculiar Children" ("La casa per bambini speciali di Miss Peregrine") di cui ho parlato qui. La trilogia continua con "Hollow City" e "Library of souls" ("La biblioteca delle anime").

Le vicende riprendono esattamente da dove erano state lasciate e l'autore si rivela molto bravo nei cliffhanger. Insomma, sa fare il suo lavoro.
Jacob e i suoi nuovi amici, i bambini con poteri soprannaturali di cui nel titolo, sono impegnati in una sfida contro il tempo per salvare la loro tutrice Miss Peregrine e tutto il mondo peculiare dai wight e dagli hollowgast che al momento spadroneggiano. La loro meta all'inizio non è chiara, ma presto punteranno su Londra, dove dovrebbero trovarsi le ultime sacche di resistenza ma soprattutto i loro simili catturati.

L'autore mette molta carne sul fuoco  nel secondo libro della serie e la gestisce abbastanza bene. Prima di tutto ci offre uno scorcio molto più ampio del mondo peculiare: sbocciano davanti ai nostri occhi di lettori centinaia di loop temporali, ognuno con una propria ymbryne a prendersene cura; scopriamo che esistono fiabe peculiari, che sono assai più crude di quanto ci aspetteremmo da dei racconti per bambini. Sono tanti i temi che vengono sfiorati, senza che però vengano approfonditi: lo sconcerto e l'angoscia di chi si scopre peculiare, l'inconciliabilità della diversità col mondo esterno sono esempi di tematiche che avrebbero potuto essere analizzate maggiormente, ma rimangono un po' lì, in superficie.
Un altro tema che secondo me l'autore non riesce a rendere è la discrepanza tra l'età anagrafica mostrata dai bambini e quella psicologica. Forse sarà lo stato di infanzia forzata dovuto alla vita con le ymbrine, ma mi sarei aspettata di scorgere, soprattutto nei momenti più drammatici, questa età reale uscire nelle scelte e nei discorsi dei protagonisti; perché no, anche l'attrito tra la maturità intellettuale di Jacob, un reale adolescente, e dei finti bambini, peraltro nati in un'epoca ben diversa dalla sua.

Una delle caratteristiche che rendono questi libri tipicamente YA (letteratura adolescenziale, insomma) è la mancanza di un'opposizione tra bianco e nero reale, di buoni assolutamente buoni e cattivi cattivissimi sempre. C'è spazio invece per tutta quell'area grigia di incertezza, di confluenza delle due sfere: i bambini vogliono fare del bene ma spesso inavvertitamente o con leggerezza fanno del male ad altre persone innocenti; inoltre messi alle strette non si fanno scrupoli ad uccidere chi li vuole catturare. Alcuni cattivi non sono poi così certi di essere cattivi, mentre alcuni buoni una volta non erano proprio essenzialmente buoni... Più di un personaggio perde la vita nel corso della storia, spesso in modo abbastanza spietato.

La storia è un susseguirsi di colpi di scena e rivelazioni, anche se la formula narrativa un po' stanca: alla fine i giovani eroi passano tutto il secondo libro a scappare e anche arrivati al terzo capitolo l'autore spende capitoli su capitoli nel tentativo di organizzare un attacco definitivo ai wights, per poi ridursi a risolverlo nel giro di poche pagine.

Per i cultori della coerenza interna e della costruzione dei sistemi magici la saga lascia un po' a desiderare. La fisica dei loop temporali in cui i peculiari vivono non è molto chiara e a mio parere non funziona granché. L'autore mette in campo tutta una teoria sulla possibilità di passare da un loop all'altro e parla più volte dei rischi legati a questi viaggi, nella fattispecie quello di invecchiare di colpo e di conseguenza morire. Ecco, la teoria dei viaggi nel tempo è bella complicata e secondo me Riggs ci si perde a furia di sguazzarci.
Anche l'organizzazione sociale del mondo peculiare non mi ha convinta del tutto. Il potere delle ymbryne sembra smisurato e il modo assoluto in cui governano sembra giustificare, a tratti, la ribellione dei wights, che rivendicano indipendenza da questo sistema.

Infine uno degli aspetti che più mi ha tenuta incollata alle pagine è la storia d'amore, o meglio il sottotesto romantico, che lega Jacob a Emma. Purtroppo una storia che avrebbe avuto grandi potenziali si arena un po' col procedere dei capitoli. Non voglio svelare niente, nessuno spoiler, soltanto ho notato una sorta di frenata tra l'inizio dell'attrazione tra i due, molto evidente e appassionata come sempre tra adolescenti, e la successiva evoluzione. La conclusione (che può essere felice o drammatica, anche questo non verrà svelato qui!) può piacere o meno. A me, forse per quanto è contorta, ha lasciato un po' così...

Più riguardo a Library of SoulsDalla fine del secondo libro e per tutto il corso del terzo volume è davvero interessante seguire l'evoluzione del potere di Jacob, sebbene verso la fine, ancora una volta, a mio parere lasci perplessi. In particolare, il rapporto che si sviluppa tra Jacob e le creature che riesce a controllare mentalmente avrebbe potuto essere molto approfondito. Il ragazzo empatizza con dei mostri, da un certo momento in poi, e secondo me questo meritava davvero una svolta, una crescita del protagonista. Tristemente non se ne trae nulla.
Anche l'idea della città peculiare maledetta, la Terra del Diavolo (Devil's Acre in originale), è complessa e avrebbe meritato più spazio, spazio che però nella storia non c'era. Tuttavia ancora una volta la sensazione che ho avuto è di molte nuove idee buttate un po' lì, alla rinfusa, poco curate nei dettagli. Le problematiche del mondo peculiare paiono in fondo non interessare a nessuno dei nostri buoni...
A questa confusione si aggiungono invenzioni tecnologiche assurdamente potenti e soprattutto la Biblioteca delle Anime che dà il titolo al terzo capitolo della serie. Non starò a rivelare di cosa si tratta ma secondo me non solo è senza senso ma pure inutile ai fini della storia vera e propria. Avrebbe potuto andare in tante altre direzioni usando il materiale che aveva, senza mettere in mezzo pure questa trovata sconclusionata, che poi si ritrova a concludere in modo affrettato. Anche l'epilogo non mi è piaciuto granché, sempre più vittima di questo andamento senza capo né coda, completamente illogico.

Insomma, la saga scende di livello col tempo e col passare dei volumi. Parte molto bene, con sprint e fantasia, ma lentamente le rotelle del meccanismo si incagliano e lo stridore si sente forte e chiaro nei capitoli finali. A mio parere il problema sta nel fatto che l'autore, col passare del tempo, ha cambiato modo di scrivere. Come confidato da lui stesso nel corso di un'intervista (riportata in appendice al secondo libro), mentre nello scrivere il primo episodio della saga si era lasciato ispirare da alcune foto strane di cui era in possesso, seguendo queste intuizioni senza un vero piano finale, a partire dal secondo volume della serie Riggs ha ideato la storia a priori e ha cercato di trovare foto adatte a portare la trama nella direzione desiderata. Al punto da dover ritoccare alcune foto per farle calzare a forza nella storia. Il risultato è un coacervo di troppe idee e uno stile di scrittura più forzato, meno naturale, imprevedibile e fluido. Fermo restando che le foto, intervallate alla storia, rimangono uno dei punti di forza assoluti dei romanzi.

Ok, temo che i punti negativi siano un po' tantini arrivati in fondo... In verità la sensazione finale non è affatto così negativa. La saga non è eccezionale ma ha dei buoni spunti e intrattiene divertendo ed emozionando, lasciando il lettore spiazzato in alcuni momenti.
Si tratta di una bella serie YA che ritengo verrà apprezzata da coloro che ne sono i naturali fruitori, ovvero gli adolescenti. Per gli adulti forse qualche perplessità in più, dovuta ai buchi di trama e agli aspetti poco approfonditi psicologicamente e culturalmente. Ciononostante un'ottima lettura per chi ha voglia di svagarsi per qualche ora e lasciar correre la fantasia senza farsi troppe domande.

giovedì 12 gennaio 2017

32. AA. VV. - Il mare si lasciava attraversare

Più riguardo a Il mare si lasciava attraversareSi parla tanto di immigrazione, negli ultimi tempi, e forse invece di blaterare sarebbe un primo passo guardare al nostro passato, più o meno prossimo, e vedere come e perché simili fenomeni siano accaduti e con quali conseguenze.

L'Italia, da sempre terra di approdo per migranti, (mica per niente Virgilio fa risalire ad un esule, un uomo scappato dalla guerra nonostante le proprie nobili origini, la stirpe imperiale stessa nell'Eneide) ha vissuto negli anni il fenomeno dell'emigrazione e dell'immigrazione in prima linea. Sono milioni gli italiani all'estero, figli di seconda e terza generazione di poveri manovali e pastori partiti a cercar fortuna in America e in Australia vendendo tutto quel poco che possedevano; uomini ormai anziani e discendenti di operai ma non solo, che nel dopoguerra abbandonarono le città natie per andare a lavorare all'estero, in condizioni spesso drammatiche e impiegati nei compiti più pericolosi; giovani e non-tanto-giovani scappati alla ricerca di un posto qualificato, di meritocrazia o riconoscimenti impensabili in Italia, dove un sistema paludoso ha strozzato e ridotto all'osso la disponibilità finanziaria destinata alla ricerca, alla cultura, all'imprenditoria. E ancora italiani del Veneto che si trasferirono ad Ovest nel primo '900, italiani del Sud che accettarono la deportazione al Nord per lavorare nelle grandi fabbriche o nello Stato. Per non parlare di tutte quelle popolazioni che negli anni si sono mischiate, ad ondate successive, alla popolazione locale: nordafricani, centrafricani, cinesi, sudamericani, albanesi, uomini e donne provenienti dai Paesi dell'Ex-Jugoslavia, dall'Ex-Urss, dall'Est europeo. Mai come negli ultimi decenni l'Italia ha visto un continuo rimescolamento della propria popolazione e sarebbe davvero interessante capire quanto questo abbia cambiato la cultura italiana, le tradizioni, la lingua e la politica interna.

Eppure misteriosamente ad ogni nuova ondata migratoria si dimentica quella precedente; al posto di odiare i rumeni ora si insegna alla gente che il nemico sono i profughi che arrivano coi gommoni dalla Siria o dalla Libia, e quelli che sono arrivati tanto tempo fa sono ormai talmente inseriti all'interno del sistema da gridare allo scandalo di quest'invasione, dimentichi forse di ciò che hanno vissuto.
Io, che ho una pessima memoria ma quelle poche cose che ricordo le ricordo bene, quando penso all'immigrazione in Italia non so perché ma non penso mai a popoli dalla pelle di un colore diverso dalla mia. La parola "immigrazione" risveglia in me due forti ricordi: mia nonna, che dal Friuli venne spedita in Piemonte all'età di 12 anni per lavorare come donna di servizio, e le immagini viste al telegiornale di giovani uomini e donne albanesi, che scappavano cercando asilo politico in Italia.
Già, ma scappavano da cosa?
Allora ero una bambina e sapevo poco di concetti come la dittatura, ma si capiva bene che quella gente era disperata, se no non avrebbero certo scelto di venire in Italia in modo tanto rischioso, no? Quei giovani, perché io, chissà perché, me li ricordo tutti giovani e maschi, rischiavano di morire, mettevano a repentaglio la propria vita. Doveva pur essere la disperazione a spingerli!

Oggi, in Italia, ci si è dimenticati che quasi trent'anni fa migliaia di albanesi trovarono rifugio da un Paese che non aveva lasciato loro alcuna speranza per il futuro. Oggi, quei giovani, si sono trasformati in adulti che hanno una famiglia, dei figli nati in Italia e un lavoro incerto tanto quanto chi, nel Bel Paese, c'è nato.
La letteratura però non dimentica ed è uno dei prodigi per cui dovremmo dire grazie ai libri di esistere. La letteratura ci narra una storia ormai passata ma che tra le pagine rimane sempre viva, sempre attuale, e ci aiuta a ricordare che ciò che succede oggi è già accaduto. Ci permette di immedesimarci in chi, quei cambiamenti, li ha vissuti e cercare somiglianze e differenze, perché ci aiutino a leggere il nostro tempo presente.

Il librino "Il mare si lasciava attraversare", venduto insieme a Il Sole 24 Ore, è una riduzione del testo originale, pubblicato dalla Salento Books, e raccoglie tre racconti lunghi scritti da altrettanti autori albanesi: "Senza bagagli" di Elvira Dones, "L'ombra dell'altro" di Fatos Kongoli e "Il lunghissimo volo di un'ora" di Amik Kasoruho. Non serve dire, visto le premesse, che tutti e tre vertono sul tema dell'esodo.

Il primo tratta di una giovane donna, Klea, divisa tra la voglia di abbandonare un Paese che l'opprime e la soffoca, dove è controllata, valutata in ogni aspetto della sua vita, mai libera di agire o di esprimere se stessa, e l'ansia e la paura per ciò che questo comporterebbe, in particolare per il suo bambino rimasto in Albania.
Sebbene fosse tagliato in più punti (io odio con tutto il cuore le riduzioni letterarie, sono un vero stupro e stravolgono il ritmo della narrazione, peraltro escludendo spesso dettagli molto importanti), ciò che più mi ha colpito di questa storia è stato il finale. Qual è il trattamento a cui vanno incontro i rifugiati - o almeno qual era il trattamento riservato loro fino a qualche anno fa? Come ci si sente ad essere di colpo in balia di una burocrazia che non si capisce, in uno stato che non parla la propria lingua e che sembra considerarci degli invasori? Perché se è vero che chi cerca asilo politico in un altro Paese deve adattarsi a ciò che troverà, è altrettanto vero che non è tanto facile per una persona di famiglia mediamente benestante, o semplicemente non disperata, adattarsi alla freddezza e all'incertezza che questo grande passo impone. Vero, è una scelta personale, ma questo non significa che una volta presa sia facile da digerire. Insomma, un interessante spunto di riflessione.

Il secondo racconto ha per protagonista un bambino e la sua triste condizione di vita. Rimasto orfano, è una sorella di cui non ha nemmeno mai sentito il nome a prenderlo in casa con sé e il marito. L'Albania raccontata da Kongoli è quella più rurale, povera e violenta: un po', purtroppo, quella che si figura l'italiano medio quando sente nominare questo Paese. I personaggi sono umili e in balia di un sistema rigido, spietato, che riduce tutti a disperati in preda alle proprie pulsioni: il marito violento e ubriacone, la moglie sottomessa ma infedele, persino il bambino è corrotto da questo ambiente e diventa un guardone. Insomma, il ritratto di un'esistenza straziata che non può che portare alla violenza o alla fuga.

La terza storia, infine, è un viaggio verso l'Italia e nel proprio passato allo stesso tempo. Forse la più esaustiva delle tre nello spiegare il perché tanti albanesi allora scelsero di prendere il mare e di fuggire dalle proprie città, perdendo tutto ciò che avevano e spesso separando famiglie unitissime, dà attraverso il racconto dei ricordi di un padre la visione di un mondo che non va avanti, che non dà futuro alle nuove generazioni, e che è destinato a morire. Mi ha fatto tanto pensare anche ai giovani italiani in fuga all'estero, che si trasferiscono nel nord Europa o in Australia per fare i camerieri, che almeno è un lavoro, almeno è in regola, almeno ho la speranza di combinare qualcosa in questo Paese a differenza dell'Italia.

Pagina dopo pagina appare chiaro ciò che gli emigranti cercano nella Terra Promessa: la dignità e la libertà.
Dignità umana, l'essere riconosciuti come persone degne di avere diritti e doveri come tutti, poter contare sull'essere accolti e valutati per ciò che si è e si sa fare, non per il proprio nome o per i vestiti che si portano o ancora per quanti soldi si è disposti a sborsare per andare avanti.
Libertà di essere se stessi e di disporre della propria vita, di viaggiare, sposarsi, scegliere il proprio lavoro e gli studi, fare amicizie e coltivare le passioni più disparate. Libertà di opinione e parola, di leggere la verità senza censure, di scrivere e fare domande senza paura della polizia o dell'ostracismo sociale.
Sono due parole belle e grandi che tutti noi amiamo e che ci stanno a cuore. Possiamo davvero dire di offrire questi privilegi a chi viene a vivere in Italia? E a noi italiani stessi questi privilegi li sappiamo offrire? Probabilmente la risposta realistica, non cinica come tanto va di moda, è in gran parte sì, ma non ancora del tutto. Bisogna lavorare e tanto perché il mondo in cui viviamo arrivi a creare un sistema davvero giusto, che garantisca piena dignità e libertà a ogni persona.

E' stato bello leggere questi racconti, perché mi hanno aperto un mondo di idee, riflessioni, considerazioni inaspettate. Ci vogliono più libri così nella vita. Questo sì che serve davvero.

Concludo con una canzone italiana non più giovanissima, canzone d'emigrante, che viene citata con grande commozione all'interno del racconto "Il lunghissimo volo di un'ora". L'Italia con la valigia da Sud a Nord. E se tanto parlava al cuore di chi stava dall'altra parte del mare in procinto di imbarcarsi su un aereo senza ritorno un motivo ci sarà, no?


domenica 8 gennaio 2017

Resoconto 2016



Com'è andato questo primo anno di viaggi intorno al globo letterario?
Tutto sommato abbastanza bene. A parte una forte frenata di fine anno (durante i mesi invernali, complice il nuovo lavoro, sono lentamente diventata analfabeta di ritorno) il saldo finale dei libri letti è dignitoso: una quarantina, circa 3 al mese. Non tanti, ma non male.

Ho pensato di raffigurare gli Stati che ho toccato nel corso dell'anno su un planisfero. Quindi, coi miei poveri mezzi, in rosso si possono vedere colorate le Nazioni interessate. Certo, non sono poi così sparse... Tanta Europa e pochissima America, poca Asia, per lo più ristretta al Medio-oriente, e pochissima Africa. Ma ci ho provato e qualcosa ho letto, cose che altrimenti non avrei mai nemmeno acquistato. Quindi mi posso dire contenta del primo traguardo.

Ovviamente non mi voglio fermare qui. Questo è solo il primo passo e per il 2017 voglio colorare un altro po' i continenti per ora rimasti quasi del tutto bianchi. In particolare voglio dare la precedenza a Centro e Sudamerica e Africa, che hanno molto da offrire. Ho già acquistato parecchi libri, ora sarebbe il caso di leggerli...

Cosa mi è rimasto di quest'anno?
Tantissimo.
In verità mi sembra di aver letto/visto/riflettuto su tante cose da non poter credere che si tratti di un solo anno di libri.
Voglio ricordare in particolare Giorgio Scerbanenco, che ho scoperto e amato pur nella mia innata ritrosia per il genere poliziesco, "Follow the Rabbit-Proof Fence" di Doris Pilkington, perché mi ha fatto riflettere sul concetto di inclusione e integrazione e sul male che facciamo animati da buone intenzioni, "I tre Grassoni" di Jurij Oleša, perché la rivoluzione si può raccontare anche disegnata col pennello dell'immaginazione, e "Trilogia della città di K." di Agota Kristof, perché la lucidità dei dettagli racconta una realtà che fa male dentro ma al contempo ci insegna che la verità assoluta non esiste.
E' stato un anno intenso, che è poi ciò che conta per me. La letteratura a mio parere non è grande se non mi fa vibrare intensamente.

Si è chiuso in sordina questo 2016, ma non voglio che si trasformi nel triste preludio di un 2017 letterariamente pigro. Passati questi mesi di confusione spero di ingranare nuovamente e ritrovare lo sprint dell'anno scorso. E auguro a tutti di potersi perdere tra le pagine fino a riempirsene il cuore.
Buone letture 2017 a tutti!

venerdì 6 gennaio 2017

31. Carlo Emilio Gadda - Quer pasticciaccio brutto de via Merulana

Più riguardo a Quer pasticciaccio brutto de via MerulanaSono rimasta un po' indietro con le mie letture dell'anno 2016... Mannaggia, mannaggia, i buoni propositi hanno ceduto proprio a fine anno! Devo dire però che qualche grosso cambiamento lavorativo mi ha lasciato un po' a terra con tutto il resto della vita e anche le letture ne hanno risentito non poco. In fondo tra ottobre e dicembre ho letto solo tre libri, due dei quali letturine leggere e avventurose...
Il mese di ottobre, però, mi ha visto impegnata in un romanzo che da tempo volevovolevovolevo leggere ma che non avevo mai avuto il coraggio di affrontare da sola. Chissà perché. Invece il gruppo di lettura l'ha estratto e io ne ho gioito profusamente.

"Quer pasticciaccio brutto de via Merulana" è un'opera che si studia all'università, mi hanno detto, e si capisce facilmente perché: Gadda è un vero rivoluzionario dell'utilizzo della lingua italiana. Anzi, di un italiano dialettale inventato, che usa come base il romanesco ma ci mischia anche molisano e altri termini gergali, fino ad ottenere un idioma curioso, straniante, certamente affascinante ma non sempre di facile fruizione.

La storia è quella classica di un giallo: il protagonista, don Ciccio Ingravallo, commissario di polizia, indaga sul caso di una donna benestante, Liliana Balducci, che è stata trovata morta in casa propria dal cugino, assassinata. Don Ciccio, che oltre ad essere un serio e apprezzato professionista era anche un amico di famiglia della povera Liliana, prende particolarmente a cuore la sorte della donna e si getta nelle indagini con un impegno addirittura maggiore di quello che avrebbe profuso in altri casi simili.

Inizio subito con uno spoiler: non viene mai detto, almeno a chiare lettere, chi è l'assassino. C'è un'intuizione, un sospetto finale, ma non è verificato. So che questo fa un po' passare la voglia di leggere tutto il libro, ma c'è molto di più della banale trama da scoprire tra le pagine del Pasticciaccio.

Tanto per iniziare la figura drammatica della vittima. Liliana è una donna già vecchia nonostante sia ancora giovane, moglie trascurata di un marito spesso via per lavoro (e che non disdegna qualche tradimento), di famiglia ricca ma non più così in vista e abbiente. Non sembra avere amici, né un lavoro o una vita sociale. Rinchiusa tra le mura del suo appartamento sfiorisce nella tristezza e nel desiderio di quel figlio che non è mai arrivato, di una maternità che è diventata ossessione e che, avendo perso le speranze di un erede biologico, riversa sulle giovani senza mezzi che accoglie in casa propria. E' una donna sola, tanto sola e triste, che ben rappresenta, a mio avviso, la condizione della donna di buona famiglia durante il periodo fascista (ma non solo...): la moglie che non genera figli, in fondo, è un fallimento.
Non se la passano meglio le altre figure femminili del romanzo: quasi tutte donne di ceto sociale molto basso, Gadda ne sottolinea la fragilità, la volubilità, l'arroganza e la volgarità; sono donne invidiose, meschine, disposte a tutto per ingraziarsi il bello di cui si sono invaghite, e non importa se è un malfattore, un assassino perfino. Tutte, più o meno, perdenti.

Molto particolare la scelta dell'autore di ambientare il romanzo nel 1927, nel pieno della Roma fascista. Scritto nel 1957, Gadda lascia scivolare tra le righe il proprio odio per il dittatore Mussolini senza mai nominarlo, ma affibbiandogli una sfilza di insulti e nomignoli dissacranti. A parte l'effetto spesso comico, si sente l'astio tipico del Dopoguerra nelle pagine del Pasticciaccio, anche se sono già passati 12 anni dalla fine del conflitto.

Tuttavia non si può parlare di questo libro senza concentrarsi sul linguaggio in cui è scritto. Gadda è comprensibile, certo, ma non agevole, soprattutto per chi non è avvezzo ai dialetti del centro/sud Italia. Inoltre la prosa è a tratti contorta, ricca di incisi, subordinate e lunghi periodi senza interruzioni. Leggendo queste pagine mi sono ritrovata a pensare che davvero non è una lettura per tutti e mi sono chiesta chi avesse in mente Gadda come lettore ideale, all'atto della stesura di questo romanzo. In alcuni momenti mi sono detta che solo un pubblico di lettori superistruiti avrebbero potuto apprezzare le montagne russe linguistiche di quest'autore, i giochi di parole, i riferimenti letterari e i tanti prestiti dal latino e dal greco. Mi stupisco ancor maggiormente del successo avuto da questo romanzo negli anni...

Infine un approfondimento sull'autore mi ha fatto riflettere su alcuni dettagli. Gadda era una persona poliedrica, incredibilmente colta, un ingegnere che si era votato alla letteratura. Probabilmente aveva un'intelligenza molto al di sopra della norma, sicuramente era una mente brillante. Tuttavia, come tanti nella sua condizione, soffriva di forti sbalzi di produttività, dovuti a un umore altalenante che io, con termini più moderni, chiamerei depressione. Leggere dei suoi momenti di euforia scrittoria e dei periodi neri che seguivano mi ha ricordato molti altri autori che ho amato (e, molto in piccolo, anche me...), scrittori geniali che però hanno faticato a portare a termine le proprie opere proprio a causa del male di vivere, dell'oscurità che, piano piano, mangiava loro l'anima. E, non dimentichiamolo, anche a causa della loro scimmia.
[Nota tecnica: per scimmia qui si intende quella parte folle del cervello che, invece di rimanere centrata e ancorata sulle proprie incombenze e sul portare a termine le attività necessarie, si perde in mille altri interessantissimi voli sulle ali della curiosità, finendo però col non combinare una mazza di niente...]
La scimmia di Gadda doveva essere un animale colossale, un King Kong mentale, e secondo me questo è ben evidente nel suo modo di narrare: sono continui i salti da un argomento ad un altro, connessioni logiche assolutamente random una dopo l'altra che portano il lettore su un sentiero astruso e sconnesso. Leggendo Gadda a volte ci si perde nella nebbia e seguirlo è quasi impossibile pur mettendoci tutta la propria attenzione e concentrazione. Affascinante, folle, ma godibile forse sarebbe un'altra cosa, ecco.
La scimmia e la depressione sono anche responsabili, con ogni probabilità, della vera pecca di questo romanzo: l'essere incompleto. Sebbene il Pasticciaccio si concluda, a suo modo, Gadda aveva intenzione di scriverne una seconda parte, in cui sarebbero state chiarite anche alcune faccende rimaste in sospeso. Purtroppo questo secondo romanzo non esiste e non esisterà mai, se non sotto forma di bozze e appunti. Mi piace pensare che, allora, la storia sarebbe stata davvero compiuta, portata a termine, e avrebbe colmato quei buchi che invece la lettura del Pasticciaccio lascia.

Un giudizio finale dolce e amaro, insomma, perché sì, il romanzo mi è piaciuto, ma è davvero faticoso da seguire e il senso di incompletezza un po' sulla lingua si sente.